Gino Strada ci lascia mentre il suo Afghanistan cade sotto i talebani: il ricordo di Riccardo Noury
Inizio di aprile del 2007, il giorno esatto non lo ricordo ma è quello in cui Gino Strada e io siamo stati fisicamente più vicini: su un palco, al centro di Roma, per chiedere insieme – Emergency e Amnesty International – il rilascio di Ramatullah Hanefi, il direttore della clinica dell’Ong a Lashkargah, in Afghanistan.
Hanefi aveva avuto un ruolo importante nell’ottenere il rilascio di Daniele Mastrogiacomo, l’inviato de “la Repubblica” sequestrato dai talebani. Poi nelle mani dei talebani era finito lui.
La storia di Hanefi terminò bene, quella dell’Afghanistan andò avanti male e rischia in questi giorni di concludersi peggio, con l’avanzata inesorabile dei talebani verso la riconquista del paese.
Lascia un senso di incredulità la coincidenza temporale tra la morte di Strada e quella, che pare ormai prossima, delle fragilissime istituzioni di un paese alla cui popolazione aveva dedicato decenni della sua vita, con un’idea in mente: garantire il diritto alla salute e a tutte e a tutti, senza chiedere nome e cognome e senza pretendere un documento d’identità.
Gino Strada, da questo punto di vista, è stato un perfetto umanitario. Ma lo è stato anche in modo ammirevolmente imperfetto: perché ha preso posizione contro le guerre, perché ha dichiarato infinite volte che organizzazioni come la sua (e, mi permetto di aggiungere, anche come la mia) esistono anche e soprattutto per rimettere insieme i cocci delle politiche di disprezzo e diniego dei diritti umani portate avanti da tante leadership. Anche da quelle che, con ipocrisia, oggi lo compiangono con parole commosse.