In fondo era ancora un bambino: vi racconto il Pansa che ho conosciuto io (di Luca Telese)
“Ho fatto tantissime cazzate, nella vita, ma tutte da solo. Il che vuol dire che ho sbagliato molto, ma non mi sono messo mai al servizio di nessuno”. Luca Telese ricorda Giampaolo Pansa
Una delle volte in cui ero andato a trovarlo a San Casciano, nello splendido fazzoletto di Toscana in cui si era rifugiato con sua moglie Adele, mi aveva accolto sventolandomi davanti al naso una foto seppiata: “La vedi questa? Sono io da bambino, in divisa da Balilla. L’ho scelta per la copertina del mio prossimo libro. Sotto ci sarà un titolo come un cazzotto nello stomaco: ‘Quel fascista di Pansa’. Ah ah ah”.
E basterebbe questo saggio del suo spirito caustico, spiazzante, per capire come mai Giampaolo Pansa se n’è andato navigando fino all’ultimo controcorrente, a modo suo, senza mai finire nella categoria del “venerato maestro”, a cui tutti aspirano e che (come leggerete) a lui faceva orrore.
Stacco, altra visita, un anno dopo. Entriamo nel suo studio, Giulio Gambino ed io. Ci consegna immediatamente due copie-staffetta del suo pamphlet contro il leader della Lega, Matteo Salvini: “Ho scritto ‘il dittatore’ – ci dice – sapendo che avrei pagato un prezzo per questo libro. Cosa che mi da un grandissimo piacere. Ah ah ah”.
Era vero anche questo, sia la premonizione, sia il ghigno, tutto giampaolesco. Giampaolo aveva dato molto ai suoi lettori “di destra”, ma poi non aveva esitato a mettere in gioco qualsiasi rendita di posizione, persino delle amicizie fortissime, quando si era convinto che quel leader non gli piaceva, che ai suoi occhi era un pericolo.
Così come aveva amato molto i suoi lettori di sinistra, ma non aveva esitato un attimo a deluderli, quando aveva scritto di Resistenza. In questo era simile a nessuno: unico, irripetibile, del tutto libero e anarchico.
Solo adesso che se n’è andato davvero, la stessa Italia furba che per una vita lui ha raccontato, messo allo spiedo, ma che è stata anche sedotta dalla sua scrittura, ha iniziato a capire quanto è stato grande e cristallino il talento di Gianpaolo Pansa.
Prima no. Anche dopo aver toccato l’onda massima del suo successo, Giampaolo era stato consapevolmente divisivo, non celebrabile, suscitatore dei sentimenti più contrastanti, amore e odio.
Eppure Giampaolo è stato la storia del giornalismo italiano del dopoguerra incarnata in un solo corpo: era il cronista suola e scarpe del Vajont, quando ci raccontava di come l’elicottero della Rai aveva ucciso il mondo dei vecchi inviati con le immagini (“Scrivo da un paese che non esiste più”), era stato il cronista di Piazza Fontana (insieme a Camilla Cederna e a Marco Nozza, suo lo scoop sul tassista Rolandi), era stato l’intervistatore del comandate dopo il golpe dell’immacolata (“Borghese mi ha detto”) e di Enrico Berlinguer nello strappo con l’Unione Sovietica con la celebre frase sul “ci sentiamo più sicuri sotto l’ombrellone della Nato” (“Io volevo aggiungere delle cose, lui mi disse: ‘Ha già avuto più di tutti’”).
Era stato l’inventore del “Bestiario” (la sua creatura più amata), il circo dove ballavano i nani e le ballerine della prima Repubblica. Di mille nomi e nomignoli a partire da “Balena Bianca”. Era stato l’uomo del binocolo, lo Zeiss con cui scrutava i congressi dei partiti quando ancora contavano qualcosa, era stato “il Sangue dei vinti”, “Sconosciuto 1945”, gli anni di piombo, le “Cronache con rabbia”.
Un giorno, mentre stavamo per ripubblicare l’Utopia armata in una collana sul terrorismo che avevo la fortuna di dirigere mi disse: “Luca, prevedo una nuova prefazione perché c’è una cosa che non ho mai detto e che voglio raccontare”.
Risposi certo e gli chiesi quale. E lui: “Ho scoperto solo anni dopo che una sera i terroristi si erano dati appuntamento per accopparmi. Conoscevano le mie abitudini. Mi aspettavano. Non ci riuscirono solo per una banale questione di ritardo e di cancelli. Poco dopo – sospirava – spararono a Tobagi”.
Nessuno ha ricordato questo episodio, perché Giampaolo non ne parlò più. Lo scrisse in quel libro, per gli atti, e basta. Mi trovavo a Reggio Emilia – invece – da inviato quando, durante una presentazione del suo libro, un gruppo di antagonisti dei centri sociali avevano interrotto il dibattito (moderato da Aldo Cazzullo) srotolandogli uno striscione davanti per impedirgli di parlare.
Quella sera avevo dovuto scrivere due pezzi prima che chiudesse il giornale, non lo avevo sentito fino alla mattina successiva. Mi aveva chiamato lui, dopo aver letto ogni virgola: “Sei depresso”, gli avevo chiesto. “Ti hanno ferito?”.
E lui, in perfetto stile Giampaolesco: “Ma scherzi? Io a questi di Militant (era il nome del gruppuscolo, un casco abbassato come logo, ndr) gli dovrei fare un monumento. Con la loro ottusa intolleranza mi hanno fatto una pubblicità enorme”.
Vero. Ma era vero anche che dopo un atto vandalico ad una libreria, lui e sua moglie Adele avevano smesso di girare l’Italia per le presentazioni dei libri, e ne avevano sofferto.
Ma torniamo ai colleghi, ai media. Solo adesso che hanno dovuto rovistare gli archivi per organizzare i coccodrilli, o raccogliere i pensieri per sintetizzarli in qualcosa, fosse anche solo un tweet, le firme del giornalismo italiano che erano la sua famiglia (le famiglie si subiscono, ma non si scelgono) hanno iniziato a fare l’inventario di quanti Pansa – tantissimi – hanno lasciato il loro segno nella storia di questo paese: il giovane storico della Resistenza, il grande cronista suola e scarpe degli anni Cinquanta e Sessanta, il grande e immaginifico raccontatore della politica, il grande polemista, il nemico e il bersaglio delle Brigate rosse, l’autore delle “cronache con rabbia” (il suo primo saggio), l’uomo del binocolo, il produttore seriale di best seller, il revisionista, l’archivista, e – su tutti – il compilatore del Bestiario, la sua rubrica-feticcio.
Quante volte lo abbiamo sentito dire: “Adele, questo lo mettiamo nel Bestiario!”. Perché Adele Grisendi era più di una moglie, una compagna, una complice: “Per questo motivo – diceva lui – nei contratti che firmo è previsto che la metà dei miei diritti d’autore vadano a lei. Non solo Adele mi ha salvato la vita. Ma è l’autrice dell’autore”. Verissimo. Quante volte li ho guardati invidiandoli – come chiunque li abbia conosciuti, per la potenza incommensurabile e autarchica di questo rapporto.
Se Giampaolo ha potuto scrivere chilometri di articoli e piramidi di libri è stato per via di questo vincolo così simbiotico, protettivo, potente e letterario. Perché – con mille nomi – era sempre Adele l’alter ego narrativo che prendeva voce nei suoi libri più famosi, a partire da “Il sangue dei vinti”, la donna che interrogava il protagonista e lo faceva raccontare.
Ma torniamo a quel giorno. La foto di Balilla di Giampaolo e lui che mi dice: “L’ha scattata mio padre, nel giugno del 1943, con una macchinetta da una lira. Ed è il primo giorno in cui Pansa – cioè io! – vestì la sua divisa di figlio della lupa”. E giù un’altra risata.
Non aveva nessun ricordo di questo primo e ultimo saluto romano. Ma proprio per questo quella immagine gli sembrava quasi amniotica, simbolica, evocativa di tutto quello che avrebbe scritto poi, a partire dal “ciclo dei vinti”, ben dieci fra saggi e romanzi sulla guerra civile italiana.
E ci scherzava su: “Così tanti? Omamma mia! Sicuro di aver contato bene?”. Ma poi, facendosi serio aveva aggiunto: “Il fascismo – spiegava davanti all’immagine di quel ragazzo seppiato – ci è entrato nel sangue così, e ci è rimasto per tutta la vita. Lo abbiamo rimosso, ma anche metabolizzato. Basta. Il mio libro è questo”. Forse tutti i suoi libri erano questo.
Pansa aveva scritto il Sangue spiegando: “la Resistenza è la mia patria morale”, ma ha concluso la sua bibliografia dando del fascista prima a se stesso (in quel titolo provocatorio), e poi a Salvini. Non era incongruo. Era un uomo sinceramente attraversato dalla sua storia.
Dopo “il Sangue de vinti” aveva scritto quattordici libri, spesso anche due all’anno. E anche negli ultimi tre mesi di vita non ha smesso di pubblicare i suoi articoli. Gli ultimi li ha dettati (ovviamente ad Adele) dal letto del suo ospedale.
Non aveva voluto dire a nessuno della sua malattia perché pensava che questo lo avrebbe danneggiato professionalmente, non poteva immaginare di smettere di pubblicare. Incredibile ma vero. Non era mai amaro, ma disincantato sì: “Da ‘Il sangue dei vinti’ in poi me ne dicono di ogni colore: fascista, revisionista, nazista, repubblichino….”.
E quindi? “Quindi dopo tre lustri di polemiche ripercorro questa storia, che mi ha cambiato in modo traumatico la vita, per affermare una volta per tutte: ‘Ditemi che sono un induista, un fascista, dite quello che volete. ‘Pensate quel che vi pare di me!’. Sai, un vecchio signore non cambia verso, ad un passo dalla bara, per motivi di convenienza”.
A otto anni il bambino Giampaolo leggeva avidamente “il Balilla”, si appassionava alle strisce sui due personaggi messi alla berlina: “Ciurcillone” e “Rusveltaccio. E “la signora Eleonora”, la moglie del presidente americano, “ovviamente dipinta come un’arpia”.
Questo a 82 anni suonati gli faceva osservare: “Noi italiani siamo cresciuti con un padre putativo, che era Mussolini, anche quando vivevamo in famiglie antifasciste”.
Quando ero ragazzo, a Montecitorio, Pansa, sempre con il binocolo in tribuna stampa mi diceva: “Il segreto di una buona intervista è l’orologio. Tu per prima cosa fai parlare per un’ora l’intervistato di quello che vuole. Poi l’ego si appaga, si abbassano le difese immunitarie e lui ti dirà anche quello che non vuole dirti”. Vero.
Solo che l’unica persona con cui il “metodo Pansa” non funzionava era Pansa. Lui ti bombardava continuamente di domande, ti faceva perdere la tua linea, ti investiva con scariche emotive, battute e parlava sempre con una sincerità brutale che a volte era disarmante.
Spesso caustico, talvolta sboccato, sempre impenitente. Un giorno ci disse: “Telese e Gambino siete come il gatto e la volpe. Telese un gattone un po’ sovrappeso. Gambino faccia da scopatore incallito!”. Giulio rimase basito e io anche, ma per lui.
Il tono scanzonato ed irriverente che aveva nella vita, soprattutto in privato, era il contrappeso del suo talento assoluto e del suo rigore giornalistico maniacale.
Aveva perso il suo unico figlio a 55 anni. Ed era stato un punto di rottura della sua vita: “Alessandro è morto. È arrivata una telefonata di mia nipote, a casa. Per fortuna Angelica ha chiesto ad Adele di allontanarsi da me. E se poi Adele non mi avesse preparato ci sarei rimasto secco”. Era sicuramente vero.
Poi aveva scritto una lettera toccante su questo lutto terribile a “La Verità”, sul suo figlio scomparso, che all’epoca aveva fatto il giro dei giornali. “Ma ho accettato solo – raccontava – perché me l’aveva chiesta Massimo De Manzoni, la prima persona con cui ne avevo parlato, che oltre ad essere condirettore, era come un amico e un fratello per me. Scrivere allora è stato come farsi una seduta di auto-analisi”.
Aveva trovato la forza di rileggere l’articolo solo un anno dopo, e diceva: “Se non fosse stato per questo legame non avrei mai accettato. Ho fatto invece bene, perché ho già rimosso metà delle cose che ho scritto, e che invece pensavo a caldo, senza filtri”.
Ma la distanza temporale non poteva medicare la ferita: “Un padre a cui muore un figlio non può più essere lo stesso uomo, ricordatelo. L’ho scritto e pensato tante volte, poi mi è accaduto e ho capito solo allora quanto sia vero”.
Spesso si definiva per iperboli: “Sono un vecchiaccio acido e scorbutico”. E quel lutto restava sempre un nodo irrisolto, il nodo ossessivo da cui non poteva liberarsi: “Vedi Luca: quando fra padri e figli ci sono rapporti complessi, e poi il dolore irrompe così, senza avvisare, ogni ricordo è un rimpianto. Ogni parola è un chiodo che ti crocifigge”.
Diceva di essere stato “un padre cieco”. Di “aver capito davvero Alessandro solo dopo la sua morte”. Piangeva raccontando: “Non sono nemmeno andato al suo funerale. Non volevo che un vecchio gli rubasse la scena, rompendogli le scatole. Avrei oscurato quella cerimonia, forse sarei schiattato lì”.
Giampaolo aveva persino scritto un libro sul sesso della terza età: “Vecchi, folli e ribelli”. Altro titolo stupendo, di cui diceva “potrebbe essere una bella epigrafe”. Vero. Una volta mi raccontò di aver messo la testa nella stanza di un direttore suo amico, molto malato.
E di aver visto una attrice italiana, famosa anche oggi, “in piedi sul divano sopra quest’uomo mentre gli mostrava… l’origine du monde”. Alla sola evocazione di questa scena sua moglie si era messa a protestare, e lui a ridere: “Vedi? In realtà Adele sa che considero questo gesto come se fosse poesia: quella esibizione fatta, solo per un uomo malato diceva Gianpaolo – era il gesto più generoso che mai potessi immaginare”.
Subito dopo trasformava questa evocazione indiscreta in una lezione di giornalismo: “Ma scusate: proprio io, che ho raccontato tutto perché la mia unica religione era la cronaca, dovrei fermarmi davanti ad un tabù? Al sesso?”.
Il 2003 era stato lo spartiacque della biografia più recente di Giampaolo, la pubblicazione del ‘Sangue dei vinti’: “Ho subito linciaggi e stroncature, che racconto. E ho dovuto lasciare la mia famiglia giornalistica di una vita, che erano L’Espresso e La Repubblica”.
Spesso gli chiedevo se la sua non fosse una ossessione. Lui mi guardava stupito: “No. Il fascismo è importante perché ancora oggi è l’unica chiave che spiega cos’è davvero l’Italia di oggi. Spiega anche Salvini e Renzi”.
Nello stesso giorno dell’uscita, ottobre 2003, la casa editrice Sperling & Kupfer annunciò una ristampa. E poi il giorno dopo si tirarono 10mila copie la mattina e 10mila il pomeriggio. Alla fine si raggiunsero 400mila copie vendute.
Dopo quel libro si era rotta l’amicizia con Eugenio Scalfari. E lui non lo negava: “Non ci sentiamo da anni, siamo due vecchie mummie. Gli voglio bene ma ho già scritto il suo coccodrillo, perché siamo giornalisti entrambi, e questo è il nostro lavoro”.
Se n’è andato prima lui, e il coccodrillo di Scalfari, se Adele non lo tira fuori dall’archivio, non lo leggeremo mai. Giampaolo si divertiva a dire che Eugenio ne avrebbe riso perché “partiva da una celebre frase di Scalfari sui cessi di La Repubblica”.
I bagni di piazza Indipendenza, raccontava, erano divisi in due: “Un giorno Eugenio era andato a fare pipì in quello dei maschi ed era rimasto orrificato delle condizioni in cui erano. Poi era andato a vedere i cessi delle donne, che erano puliti. E allora si era incazzato”.
Di fronte ai miei dubbi sul fatto che si potesse raccontare Scalfari a partire da questo pur gustoso aneddoto, Giampa si era acceso: “Sei giovane ma hai dei tabù. La circolare sui ‘cessi dal volto umano’ è il reperto più fedele di un mondo in cui i giornali erano tutto: scuola, palestra, caserma. Oggi quel mondo non esiste più: né le redazioni né i cessi. Scalfari è stato l’ultimo sovrano di quell’era geologica, ha legislato su tutto, come Napoleone”.
Per Pansa i corpi, i sentimenti, gli amori e le malattie erano il modo per capire gli uomini: Claudio Rinaldi, il suo migliore amico, aveva la sclerosi multipla. “Lo scoprì nel 1986, e me lo raccontò, facendo una intervista a De Mita a Nusco. Gli cadeva la matita dalle mani. Provava a a raccoglierla e non riusciva a stringere le dita e a riprenderla. Pensava di riuscirci e non riusciva… Mi veniva da piangere, mentre lo raccontava. Gli guardavo le mani, mi sentivo male”.
Pansa raccontava che De Mita aveva contattato un medico a Milano, noleggiato un aereo privato e lo aveva spedito al Besta, dal padre di Tito Boeri. Il gesto suscitava in lui ammirazione per l’uomo che spesso aveva punzecchiato: “Non me lo dimentico. Claudio riuscì a rallentare il morbo per anni”.
Bisogna ricordare, alla voce libertà e follia che Pansa e Rinaldi avevano lasciato entrambi Panorama dopo la scalata di Berlusconi nel 1990. Claudio era già malato, disoccupato, lui e Adele lo invitavano a cena, pagando sempre loro per timore che avesse difficoltà.
Avevano idee diverse, una sera nel 1991 – in un ristorante a Porta Pia – mentre impazzava la prima guerra del Golfo, Rinaldi e Pansa litigarono: “Finimmo come pazzi, quasi a urla. Io ero interventista e lui no, ma improvvisamente ci accorgemmo che ad un tavolo c’era Salvo Lima”.
Si girano verso il tavolo, e si accorgono che insieme allo storico proconsole di Andreotti in Sicilia c’era anche Franco Evangelisti, il noto proconsole andreottiano a Roma, quello di “A Fra’, che te serve?”.
Allora Pansa e Rinaldi smettono di litigare e si mettono ad origliare: “Facevano un gioco: l’appello dei massimi dirigenti democristiani. E commentavano così: ‘Ricchione’. ‘Non ricchione’. ‘Ricchione!’. Ah ah ah”.
Gli chiesi perché me lo raccontasse. E Giampaolo scoppiò a ridere: “Perché qui capisci cosa era la Dc, cos’è Roma, cos’è il giornalismo e cosa eravamo noi, che ci dimenticammo il litigio a sangue su Bush e ci mettemmo a scorgere appunti. Poi confrontammo gli appunti ed eravamo diventati di nuovo fratelli. È il mestiere questo! Il mestiere!”.
Pansa aveva scritto di Lima peste e corna, ma poco dopo la serata di Porta Pia, insieme ad Adele lo incontrarono di nuovo con una signora leopardata. Pausa teatrale: “Pochi giorni dopo la signora leopardata Lima finì mitragliato davanti ad un cassonetto. Questa è la vita”.
Gli chiesi perché era così attratto dai particolari splatter. Mi rispose: “La cronaca per me è questo. Il dettaglio, il sangue, il colore, il particolare macabro, la leopardatura. Ora che sono vecchio leggo dieci giornali al giorno e dico: datemi i dettagli Cristo, fatemi capire! Vuoi che ti dica le balle o che ti dica la verità?”.
Rinaldi e Pansa si riuniscono professionalmente a l’Espresso, il primo direttore e il secondo condirettore, e il Bestiario nacque così. Giampaolo sistematizzava così la sinergia: “Claudio faceva battaglie civili, ma andava anche pazzo per la trasmissione di Arbore. Per le ragazze Coccodè. Per il costume. Per una copertina in cui aveva messo in prima una ragazza nuda su un bidet! Un genio”.
A questo punto Adele lo prendeva in giro dandogli del feticista. E lui le diceva che aveva ragione: “Lo sono sempre stato. Solo che tu prima mi censuravi di più. Ora ti sei arresa, ah ah ah”.
E sui però si arrivava al punto cruciale: “So che in questo paese così cattolico non si diventa venerato maestro, se si parla di tope, di bidet, di sesso, di leopardature. Ma pensa che palle i vecchi saggi! Io non li posso vedere”.
Se gli chiedevi quale talento si riconoscesse rispondeva così: “Senti come sono fatte le vite. Io da ragazzino volevo fare il giornalista. Mio padre mi regalò una Underwood: una specie di enorme altare scuro di acciaio e ghisa. E quando fui promosso alla terza media, mia madre mi regalò, come un premio, un corso di dattilografia”.
Così Pansa si era ritrovato in una scuola privata diretta da un prete spretato perché considerato comunista: “Cervello fine, persona straordinaria ed onesta. La fortuna della mia vita”.
Gli chiesi perché e Giampaolo si mise ridere: “Solo dopo due giorni andò da mia madre e le disse: ‘Signora, non me lo mandi più’. Disse: ‘Scherza?’. Lui le rispose: ‘Parlo contro il mio interesse. Suo figlio ha imparato in due giorni tutto quello gli altri apprendono in mesi'”.
Secondo Giampaolo lui doveva a quel corso e a quel prete spretato tutta la sua carriera: “Andai dal direttore de ‘Il Monferrato’. Si chiamava Mario Verda, ma noi – ah ah ah – non ti dico come lo avevamo ribattezzato…”.
Verda lo aveva rimproverato perché Giampaolo gli aveva portato dei racconti (“Un giornalista non scrive racconti”). Ma proprio mentre lo stava accompagnando alla porta, cioè fuori dal giornalismo, gli aveva dato un’ultima chance: “Mi mise davanti alla sua macchina e disse: ‘Prova a scrivere’, dettando a cento all’ora”.
Pausa teatrale: “Il mio corso di dattilografia. La ebbe vinta su tutto. Scrissi con una velocità che lo stupì. Mi riportò alla scrivania, cioè dentro il giornalismo, e mi disse brusco: ‘A Casale ci sono quattro cinema. Scrivi quattro brillanti recensioni dei film, in dieci righe'”.
Questa gavetta gli apri la porta de la Stampa con il mitico Gdb, De Benedetti, che faceva le riunioni di redazione costringendo tutti a stare in piedi dicendo con un ghigno: “Così durano meno”. Giampaolo aveva una borsa di studio alla Fondazione Feltrinelli e all’istituto per la Resistenza, era il 1961.
De Benedetti Chiese brusco: “Quanto le danno Pansa?” E lui: “Cinquantotto mila lire”. E lui, lasciandolo di stucco: “Deve lasciare Milano, ha famiglia… Facciamo centomila!”.
Giampaolo resta paralizzato dalla gioia, ma il direttore della Stampa pensa che sia insoddisfatto della paga. Si infuria: “‘Questi giovani non sono mai contenti! Gliene do 120mila, ma non se ne parli più’. Ho avuto la fortuna rara di mettere il mio primo stipendio e il mio primo aumento in soli dieci secondi”.
Gli chiesi di chi si sentisse figlio. Mi rispose: “Della carta stampata, che oggi si è estinta. Di mio padre che saliva sui pali del telegrafo con le ganasce e i guantoni, ed era un buono. E di mia madre, che era vulcanica ma anche una furba, aveva un negozio di modisteria e un giorno licenziò tutte e sei le sue dipendenti in un colpo”.
Ammise di aver imparato una delle cose più importanti sul mestiere da Scalfari: “Mi ha insegnato che bisogna fare sempre un giornalismo diverso dagli altri”.
Temeva Salvini. Considerava il Pd un partito morto, vedeva male Renzi (“un bullo”), non stimava Di Maio (“I Grillini sono impreparati, è forse persino peggio di Renzi”), diceva di non votare più da anni.
Ma aggiungeva: “La mia vera dote non è la calligrafia. Io sono rimasto, persino oggi, un bambino che si meraviglia e si commuove per quel che vede e che sente”.
E poi mi spiegava cosa fosse per lui la scrittura: “È tutta la mia vita. Come respirare. Mi alzo la mattina e scrivo. Leggo i giornali: dormo. E poi scrivo”.
E basta? “Forse ho un’altra dote. Ho fatto tantissime cazzate, ma tutte da solo. Il che vuol dire che ho sbagliato molto, ma non mi sono messo mai al servizio di nessuno”.