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La furia di un solo uomo infiamma il Medio Oriente e l’Europa: Bibi Netanyahu

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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Credit: AGF

Nell’anno delle elezioni USA e delle Europee, andando avanti di questo passo, ci troveremo a dover fronteggiare un Medio Oriente sempre più in fiamme, destabilizzato dalla volontà di un leader incapace di fermarsi, nemmeno dopo 120 giorni di bombe. E tutto questo, ancora una volta, gioverà a tutti fuorché a noi europei.

A oltre quattro mesi dal 7 ottobre la guerra su Gaza è degenerata in una crisi del Medio Oriente che coinvolge sempre più paesi. Il comportamento di Israele ha innescato un meccanismo difensivo e di rivendicazione da parte dei protagonisti della regione che rende sempre più instabile l’ordine mondiale.

Lo scorso weekend USA e Gran Bretagna hanno compiuto oltre cento raid in Yemen, Iraq e Siria contro le milizie fedeli all’Iran, provocando almeno quaranta vittime, in risposta all’uccisione di tre militari americani in un attacco contro una base di Washington in Giordania.

Ventiquattro mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ci troviamo a fare i conti con un’altra guerra, sempre più aspra, la cui fine non si intravede all’orizzonte. Non sono chiari, ancora oggi, gli obiettivi del conflitto tra Israele e Hamas, posto che l’annientamento totale di quest’ultimo risulta impossibile (se non altro perché la storia ci ha insegnato che il terrorismo non si sconfigge con una mera controffensiva).

Tanto è scriteriata l’azione del governo Netanyahu che, al pari della soluzione a due stati, l’unica altra cosa ugualmente impopolare in Israele oggi è il suo primo ministro. Il cui unico obiettivo, da principio, è quello di rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese, fatto invece non osteggiato dalle nuove generazioni che vedono nel dialogo l’unica via per la condivisione della terra che insieme abitano.

Il limite della campagna israeliana sta proprio nel linguaggio mediatico, volutamente distruttivo, messo in atto dagli uomini chiave di Netanyahu. Come quello dei dodici ministri del suo governo che, senza avere niente di meglio da fare, “per scherzo”, si spartiscono Gaza in un gioco da tavola a metà tra Monopoli e Risiko. Questo simpatico sipario è andato in scena il 28 gennaio a Gerusalemme in occasione di una convention dal titolo “La vittoria di Israele – Gli insediamenti portano sicurezza: torniamo nella Striscia di Gaza e nella Samaria del Nord”. Al gioco, che permetteva ai partecipanti di decidere in quale quartiere di Gaza stabilire le loro case, hanno preso parte anche 15 deputati della Knesset e quasi tremila simpatizzanti dell’estrema destra in Israele.

Nel frattempo Israele, per non sbagliare, continua a bombardare convogli di aiuti umanitari a Gaza. Le vittime civili sono decine di migliaia, i bambini oltre 12mila.

Sono morti complessivamente più giornalisti a Gaza sotto le bombe israeliane che in tutta la seconda guerra mondiale. Uno sterminio, più che una vendetta; un dramma umano, più che la sete di giustizia.

Dall’Ue giunge il monito di una minaccia contro Israele se continuerà a opporsi alla nascita dello stato di Palestina, ma sono parole al vento che lasciano all’uomo forte del Medio Oriente la possibilità di fare ciò che vuole.

Nemmeno l’ordine esecutivo del presidente USA Joe Biden, che ha imposto sanzioni a quattro coloni israeliani accusati di aver commesso atti violenti contro i palestinesi in Cisgiordania, è bastato a placare la furia di Israele.

Nell’anno delle elezioni USA e delle Europee, andando avanti di questo passo, ci troveremo a dover fronteggiare un Medio Oriente sempre più in fiamme, destabilizzato dalla volontà di un leader incapace di fermarsi, nemmeno dopo 120 giorni di bombe. E tutto questo, ancora una volta, gioverà a tutti fuorché a noi europei.

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