Fermiamoci a riflettere su che cosa sta accadendo davanti ai nostri occhi prima che sia troppo tardi
Mentre Israele porta avanti la sua campagna militare su Gaza, una tra le più feroci e dure registrate negli ultimi decenni, ancora non è chiaro quale sia l’obiettivo finale. Sconfiggere Hamas sul campo può essere un target percorribile? Forse in parte, ma annientare l’ideologia che ne alimenta il credo e la battaglia è improbabile.
Noi paesi occidentali – qualsiasi cosa voglia ormai dire Occidente – siamo dunque al fianco di una democrazia che, in risposta a un’aggressione vile e barbarica, ha deciso di intraprendere una nuova guerra al terrorismo. Ma a che costo?
Difficile credere che il seme germogliato nella terra oggi controllata da Hamas, di cui Israele si è servito negli ultimi anni per tenere a bada la rivendicazione della causa palestinese, perisca con una controffensiva. Più probabile, al contrario, che finisca invece per riaccendere gli animi di quei popoli che vedono in Israele l’ostacolo alla propria esistenza.
Ne sono una prova le decine di manifestazioni che in tutto il mondo arabo si sono susseguite nei giorni successivi all’attacco del 7 ottobre.
Questa data di per sé è simbolica e al contempo problematica: lo è, da un lato, perché costituisce uno spartiacque, agli occhi di chi oggi ritiene che Israele possa difendersi in nome del diritto internazionale, utile a chiarire una volta per tutte che la Terra Santa nella storia non è mai appartenuta ai palestinesi, e meno che mai può esserci una cosa chiamata Palestina se esiste Hamas; ma il 7 ottobre, per buona parte del mondo arabo, rappresenta invece la prosecuzione naturale di un conflitto che perdura da ottant’anni e quindi non è altro che l’ultimo e violento colpo di coda conseguente a una politica vessatoria e opprimente intrapresa dall’ala più estremista di Israele nei confronti dei palestinesi.
Questo scontro ideologico tra fazioni avverse si ripercuote tale e quale sulla stampa italiana, la quale predilige quasi sempre solo la causa dei primi, dando vita – come già è stato per l’Ucraina – a una guerra delle notizie incapace di indagare, con la dovuta complessità del caso, le ragioni e i torti delle due parti in causa.
Ciò avviene con simile ferocia solo da noi. E si verifica in buona parte perché non abbiamo una politica estera se non la miope linea che l’Occidente (o parte di esso) decide di perseguire, senza però conoscere sino in fondo la portata di quelle decisioni. Ignorando – quindi ripetendo – gli errori che ci hanno portato a essere così poco credibili agli occhi del sud del mondo.
Lo testimonia l’ultimo voto all’Assemblea generale dell’Onu in cui l’Europa ha votato divisa (Francia a favore del cessate il fuoco, Italia e Germania astenute), gli USA hanno votato contro, essendo la controfigura di Israele nel mondo, e la maggior parte dei paesi invece ha votato per una tregua.
Davanti a questi fatti, a queste ipocrisie della storia, come può porsi parte del mondo arabo, specie quello più radicale, da sempre ostile verso Israele e senz’altro vicino alla causa palestinese?
L’ex capo dei servizi segreti israeliani interni ha recentemente dichiarato che senza una soluzione che preveda la creazione di uno Stato palestinese sarà impossibile togliere potere ai miliziani di Hamas.
Lo sostengono in molti, ma il governo di Netanyahu sembra ostinato a fare diversamente.
Israele ha infatti bombardato il campo profughi di Jabalia a Gaza. Si stima che quasi un palazzo su quattro nel nord della Striscia sia stato colpito e risulti oggi danneggiato o distrutto.
Le bombe israeliane hanno finora già causato la morte di oltre 8.000 persone, di cui quasi 4.500 bambini, secondo le autorità.
Intanto il direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani si è dimesso accusando l’Onu – in una lettera pubblica – di aver abbandonato e ignorato i suoi principi e il diritto internazionale, e di non aver fatto nulla per evitare il bombardamento di Israele su Gaza, che ha definito un “caso da manuale di genocidio”.
Forse è davvero il caso di fermarsi e riflettere su cosa stiamo facendo, su cosa stiamo avallando, su cosa sta accadendo davanti ai nostri occhi.