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Quella gabbia culturale che opprime noi donne

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

C’è un problema enorme di generazioni di uomini incapaci di affrontare le separazioni, le delusioni, i momenti difficili. Bisogna decostruire il modello patriarcale basato sul possesso

Cara Giulia, avevi dimostrato una forza invidiabile. Stavi per laurearti, superando il recente lutto di tua mamma. Ma noi non sappiamo nulla di te. Potevi essere forte o meno forte, consapevole o meno consapevole, non cambierebbe nulla di fronte all’ennesima sconfitta della società. E non sei di certo tu la responsabile di quanto accaduto. 

Non basterebbe una vita intera a conoscere la tua storia, non è nostro compito indagare il perché e il per come tu fossi stata accanto a quel ragazzo, né per quale motivo sia stato possibile che Filippo sia riuscito a portarti via. Ed è bene ricordarlo a tutti, non è colpa tua. Semmai, è colpa nostra. Uomini e donne, mariti e mogli, padri e madri che oggi si barcamenano tra il compito di essere genitori, cittadini e umani. 

C’è un problema enorme di generazioni di uomini incapaci di affrontare i problemi, le separazioni, le delusioni, le sconfitte, i momenti difficili. Mentre le giovani donne conquistano spazi nella società – sì, conquistano perché resta una guerra di potere – gli uomini sembrano incapaci di accettare il nostro nuovo ruolo. Fanno fatica a vederci realizzate, vincenti, capaci di farci forza da sole, di essere indipendenti economicamente, fisicamente, sessualmente. 

Su cosa si baserà oggi il rapporto uomo-donna se io uomo non “servo” più a proteggerla e a dominarla in questi ambiti? È dura, me ne rendo conto. Ma bisogna crescere, evolversi e cambiare. Accettare che esiste un modo migliore di avere una relazione con l’altro sesso, non basato sul ricatto psicologico ed economico. Decostruire il modello in cui il possesso, l’ossessione e la cultura patriarcale prevalgono. 

Non riusciamo a liberarci da questa gabbia che opprime ogni aspetto della vita di una donna. Non riusciamo a pensare che, se anche noi otteniamo il nostro spazio, vincono tutti. Sembra ancora lontana l’idea che, invece di possederci per ricatto, si potrebbe godere di un amore vero, perché libero. Che è l’unica forma di amore possibile. 

C’è ancora la pretesa di controllo su tutto: sul vestiario, sul lavoro, sul guadagno, sul modo in cui si spendono i soldi, su chi si occupa dei figli e della casa. Lo fanno i padri e lo fanno i mariti. Una vita diversa in ogni aspetto: tu, ragazza, ti devi ritirare prima di tuo fratello, devi truccarti poco e non mettere una gonna troppo corta. Devi scegliere una facoltà incline alle “attitudini femminili” e ottenere risultati che non umilino il tuo compagno. Che invece è indietro con gli esami. 

Guai, guai a guadagnare di più, a ricoprire ruoli di vertice. Guai a non volere figli o a volerli crescere in parità. Guai a desiderare di lavorare quando tuo figlio è ancora piccolo o a pensare di lasciarlo al tuo compagno mentre torni alle tue passioni. 

La lettera di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, è in questo senso magistrale. Un manifesto culturale per tutte le generazioni. «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». E ancora: «Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere». 

Filippo è il figlio sano del patriarcato. Suo padre lo ha definito un «bravo ragazzo che non aveva mai dato problemi»: «Ho sempre pensato – ha raccontato l’uomo – che fosse il figlio perfetto, mai problemi a scuola, nessun litigio con i compagni, neppure con il fratello. Trovarmi una cosa del genere… non è concepibile, gli è scoppiato qualcosa nel cervello. (…) So che una volta l’ha seguita a Padova, ma non è che andasse tutte le sere sotto casa a perseguitarla». 

No, Filippo non era il figlio perfetto. Nessuno lo è mai, semplicemente perché non esiste. E non doveva seguire Giulia a Padova, nemmeno una volta. Filippo avrebbe dovuto viversi le sue emozioni senza camuffarle, affrontare il distacco, soffrire ed essere accompagnato verso ciò che era giusto fare: essere libero come libera doveva essere Giulia. Senza manipolazioni, ricatti morali o piccoli sotterfugi. 

Bisogna non solo educare ai “No”, ma anche stimolare il contrasto, la discussione, il confronto, la dialettica. Far uscire rabbia, tristezza e frustrazione quando sono lì, dentro di noi, e non reprimerle.

Le donne uccise in Italia sono un’emergenza su cui non si può più perdere tempo. 

E oggi noi donne ci troviamo ad aver paura di chiunque, sia fuori casa che dentro casa. Al lavoro. Ovunque. Ci ritroviamo a non poter nutrire speranza nemmeno in chi abbiamo amato, pensando che restargli accanto come supporto può essere pericoloso. Abbiamo paura di essere fraintese, di tirarci indietro quando lo riteniamo giusto, abbiamo paura persino di accettare un passaggio da un collega. Abbiamo paura di dire “No”. E questo è spaventoso. 

Significa non potersi fidare di nessuno. Significa diffidare, non viversi i sentimenti, analizzare ogni gesto e ogni parola. Significa neutralizzare il romanticismo, rivalutare ogni percorso compiuto. Significa che il tempo e gli istanti trascorsi con alcune persone potrebbero semplicemente essere nulli. Perché, se questo è il panorama, tocca pensare a difenderci. E non c’è spazio per altro. Abbiamo perso tutti.

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