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La felicità è una cosa seria (di G. Gambino)

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il progresso degli ultimi cinquant’anni ha portato con sé anche un aumento significativo della complessità. Più abbiamo appreso, più è aumentata la consapevolezza di ciò che non conosciamo. Più è aumentato l’ignoto, più è aumentata la nostra insoddisfazione. Questo è uno dei motivi per cui, indipendentemente dal grado di istruzione e dallo strato sociale, oggi siamo meno felici di un tempo. Il che ha portato centinaia di milioni di persone in tutto il mondo a porsi domande basilari sulla propria esistenza, come ad esempio se valga la pena lavorare così a lungo per guadagnare così poco, avere molto poco tempo libero, non dare valore alle “cose giuste”. In altre parole: se valga la pena vivere una vita così vissuta.

L’oppressione esistenziale derivante dall’ignoto ha portato gradualmente a una perdita di senso, che è uno dei problemi maggiori di questa epoca. E alla normalizzazione di questa condizione. Per capirlo meglio, provate così: sedetevi in casa sul divano del vostro salotto o sul letto della vostra stanza. Guardate gli oggetti intorno a voi. Quella sedia, quella lampada, quel tavolino, tutto ciò che avete riposto lì sopra. Vi accorgerete che forse appena uno, su dieci oggetti, avranno senso per voi. E questo è applicabile a tutto.

Domanda: se doveste improvvisamente darvela a gambe, cosa portereste con voi fra tutti quegli oggetti? Rispondendo a questo quesito vi rendereste conto che la maggior parte delle cose non ha senso. Questo per dire che troppe cose inutili hanno senso e troppe cose utili non hanno senso. Nella società dell’abbondanza la perdita di ciò che ha davvero senso avviene molto più rapidamente. Ed è terribilmente alienante.Il fatto è che accumuliamo e riempiamo le nostre vite di oggetti per due motivi: 1. Per colmare bisogni quantitativi — soldi, potere, beni materiali/terreni; 2. Per colmare bisogni qualitativi — introspezione, amicizia, amore, gioco, bellezza, convivialità. Tutte necessità, queste ultime, che ci rendono umani e soprattutto che non costano nulla. Se costassero, e cioè se per essere soddisfatte dovessimo pagare, da bisogni qualitativi diventerebbero bisogni quantitativi.

Ora pensate a questo: la pandemia è stata una delle rare fasi della nostra esistenza in cui, per la prima volta da oltre mezzo secolo, abbiamo privilegiato l’introspezione — uno dei bisogni qualitativi.

Avendo avuto la possibilità di pensare per così tanto tempo — che prima impiegavamo a soddisfare quasi unicamente i bisogni quantitativi (viaggiare da una parte all’altra della città per lavorare 10/12 ore al giorno) — un numero sempre maggiore di persone ha capito una cosa molto semplice, in fin dei conti: la società di oggi spinge a dare prevalenza assoluta a ciò che, il più delle volte, non ci rende del tutto felici (o solo parzialmente).

E più ci occupiamo dei bisogni quantitativi meno riusciamo a pensare ai bisogni qualitativi. Ecco, tutto sommato, una possibile sintesi del perché tante persone oggi non sono più disposte a dare la propria disponibilità a lavorare H24, così come di recente ha rivendicato la protesta nata in risposta alle parole di Elisabetta Franchi. L’obiettivo è superare quel modello. In Italia lavoriamo in media 1.800 ore l’anno. In Germania ne lavorano in media 1.400. Ciò significa che un impiegato tedesco ha a disposizione 400 ore l’anno in più per soddisfare i bisogni qualitativi. Non è poco. Allora, forse, la prossima volta che qualcuno si chiederà perché le grandi dimissioni sono un fenomeno rivoluzionario e di portata unica nella storia sarebbe opportuno rispondere così: «Si è sparsa la voce che si campa una vita sola».
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