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Fiat si fonde con Peugeot: gli azionisti incassano, gli italiani pagano, il governo tace

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Fca (cioè la Fiat), si fonde con Psa (cioè la Peugeot) e cede il suo pacchetto di controllo in cambio di un super dividendo da 5.5 miliardi di euro.

Siamo contenti per gli azionisti beneficiati, ovviamente. Questa enorme pioggia di denaro, che arriva in cambio della cessione dell’ultimo gioiello di famiglia – infatti – è stata ottenuta dopo una negoziazione in cui curiosamente gli italiani hanno posto una condizione dirimente: la sede della società avrebbe dovuto restare in Olanda, e non traslocare a Parigi, ovvero nel luogo dove (fino ad oggi) aveva sede la testa del nuovo colosso che sta nascendo.

La battaglia degli eredi-azionisti-beneficiati Exor su questo “campo neutro” – dunque – non riguardava, né simbolicamente né pragmaticamente l’Italia, ma l’Olanda. È un dettaglio rivelatore.

Da questa fusione nasce un super gruppo che avrà delle straordinarie sinergie industriali: Fca porta in dote dei mercati (a partire da quello americano e da quello brasiliano dove Peugeot-Psa non esiste).

Mentre Peugeot porta in dote dei brevetti straordinariamente innovativi (come i motori ibridi ed elettrici di ultima generazione) che la Fiat, inchiodata sul multijet, nemmeno si sogna: è il controvalore di miliardi di investimenti di innovazione che negli ultimi decenni i francesi hanno avuto la lungimiranza di fare, mentre gli Agnelli, Marchionne ed Exor non hanno fatto.

La Psa può vantare uno straordinario catalogo di prodotti e marchi (l’ultimo arrivato nel campo del lusso, Ds, ha solo pochi anni di vita) , la Fca ha due marchi storici che languono o solo addirittura sterilizzati (Alfa Romeo e Lancia) e – incredibilmente – non ha ancora trovato i capitali per varare la nuova versione della Punto (il modello di punta del segmento di mercato storicamente più importante della Fiat in Italia). Una follia.

Ma nessuno nel nostro paese ha scritto una riga, meglio celebrare San Marchionne, piuttosto che chiedersi come mai la gamma di Lancia, un marchio del lusso con più di cento anni di storia ed enormi successo di mercato (anche recenti, sotto la gestione di Olivier Francois) sia ridotto al lumicino con la produzione della sola piccola utilitaria Ypsilon, un unico modello – già arrivato a fine corsa – per giunta derivato da un altro prodotto Fiat (la Panda). Follia.

Ma nessuno tra i ministri competenti in questo anni ha sentito il dovere di chiedere a Fiat alcunché. Il problema è che questa nuova superfaniglia adesso avrà parenti in Francia (Psa), in Germania (Opel) e anche in Italia (Fiat) e America (Chrysler): in tutti i paesi queste famiglie hanno un padrino importante che li tutela nel rispettivo governo (pensate solo a quello che sta accadendo con la Jeep e i dazi di Trump).

Questa tutela paradossalmente è fortissima sia dove c’è un controllo diretto di Stato (Francia) sulle società, sia dove in virtù di un modello ultraliberista formalmente non esiste nessuna partecipazione alla proprietà (Stati Uniti).

Ovunque gli stati sono interessati al futuro dell’auto ed intervengono (pensate al prestito condizionato di Barack Obama alla Chrysler), ovunque tranne che in Italia, dove qualsiasi governo, in questi ultimi anni, è stato velocissimo nell’infilarsi la tuta con lo stemma aziendale per le photo opportunity, ma decisamente più lento, se non afono nel porre condizioni e chiedere garanzie produttive, occupazionali, o anche solo innovazionali.

Eppure forse avremmo dovuto fare alla Fca qualche domanda sulle promesse (tradite) del 2011, quando Marchionne promise la fine della cassa integrazione a Mirafiori in caso di vittoria nel famoso referendum aziendale sul contratto (la ottenne), e subito dopo tradì la promessa: ancora oggi quel costo sociale è pagato da tutti noi, con anni di cassa integrazione a spese della collettività.

Per capire la portata del problema che si crea adesso basta questo dato: solo in Italia – già oggi – la capacità produttiva installata è di 1,5 milioni di autoveicoli, il doppio dell’effettiva produzione (700mila) realizzata nel nostro paese.

La grande domanda quindi è: se ci sarà da ridurre questo nuovo enorme potenziale che la fusione determina in tutto il continente, chi farà la parte del vaso di coccio? Oppure bisogna solo affidarsi alla speranza (decisamente onirica) che le vendite possano raddoppiare?

Quanto si devono preoccupare i lavoratori degli stabilimenti di un paese dove sono ancora consentiti (dal Jobs act) i licenziamenti collettivi? Ci sono duecento eredi della famiglia Exor Agnelli, in Italia, che camperanno di rendita su questo nuovo super-dividendo da 5,5 miliardi e, senza dubbio alcuno, siamo contenti per loro.

Fin qui nulla di male, questa pioggia di soldi potrebbe essere solo un affare dei tanti miracolati che camperanno, per generazioni, grazie alle quote ereditate senza aver mosso un dito in vita loro.

Peccato che questi duecento “rentriers” che campano di rendita su Exor possiedono, grazie ad Exor, la Fca, cioè la Fiat, cioè il destino e le vite di quei 70mila dipendenti (più altrettanti nell’indotto) che lavorano da tutta la vita in Fiat e campano di quello. È un pezzo importante del Pil italiano, ricchezza di tutto Paese.

Peccato dunque che questi duecento eredi che campano su Exor, che possiede Fca, che controlla quello che resta della Fiat in Italia, stiamo monetizzando il loro patrimonio, cedendo ogni diritto di controllo al gruppo Psa/Peugeot, e quindi disinteressandosi di cosa accadrà a questi dipendenti.

Siamo contenti per tutti coloro che – tra questi miracolati – potranno comprarsi grazie all’operazione di vendita un nuovo castello o una nuova barca, e forse – con un po’ di parsimonia – potranno trasmettere questo privilegio ai loro eredi, mentre gli italiani continuano a pagare la cassa integrazione del gruppo e le promesse mancate di “Fabbrica Italia”: ma purtroppo per noi, da questa cessione di sovranità in poi, solo un miracolo potrà impedire la chiusura di parte degli stabilimenti italiani.

In Francia – come abbiamo visto – il governo è azionista del gruppo Psa e tutela gli interessi nazionali (e ha fatto lo stesso con Renault, proprio nelle trattative con la Fiat). In Germania i lander tedeschi hanno la loro quota di controllo nel gruppo Opel e tutelano i loro interessi nazionali (lo fece anche il governo quando la Merkel disse “No” all’acquisizione di Marchionne).

In America Trump ricatta chiunque attenti all’industria nazionale (e sta minacciando tassi del 40 per cento sui modelli prodotto fuori dagli States).

In Italia – invece – l’azienda più finanziata della storia repubblicana è di proprietà dei duecento azionisti-eredi-beneficiati che potranno investire il loro gruzzolo (e sempre siamo molto contenti per loro e per i loro figli) ma che rinunciano al potere di controllo per difendere “l’olandesità” della società. Folle. Surreale, ridicolo.

Il governo italiano non dice una parola su questi temi. Non pone condizioni. Non è al tavolo. Casualmente – in questo paese – metà dei principali quotidiani italiani è di proprietà del gruppo Exor-Fca-Agnelli-beneficiati: altrimenti – forse – leggeremmo qualche velina di meno.

E forse scopriremmo dalla stampa che, mai come oggi, questa splendida operazione industriale replica all’ennesima potenza un effetto collaterale assai ricorrente nella storia del rapporto tra la Fiat e lo Stato italiano: questa fusione è fondata ancora una volta sulla socializzazione dei costi e sulla privatizzazione dei profitti. Chiamali scemi.

Fca Psa, l’ufficializzazione dell’accordo per la fusione
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