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Addio Eugenio Scalfari: il ricordo di S. Gambino

Immagine di copertina
Eugenio Scalfari. Credit: Ansa

E alla fine se n’è andato anche lui. Il leader carismatico di un gruppo di giovani intellettuali rampanti che, a partire dalla metà degli anni cinquanta, hanno inciso profondamente sul modo di pensare d’un Paese ancora ferito dalle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale. Eugenio Scalfari, scomparso oggi a 98 anni, ha incarnato le vicende d’un secolo d’Italia, da giovane monarchico divenuto poi liberale, attraverso un decennio radicale che lo ha portato a diventare un socialista che guardava a sinistra, per chiudere la sua parabola da grande fautore di quel compromesso storico, non solo politico ma soprattutto sociale, ideato da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.

Per chi come me ha avuto il privilegio di conoscerlo fin dalla nascita, nel senso autentico del termine, oggi è scomparso un punto di riferimento imprescindibile dei miei 64 anni di vita. Affiorano nella mente i ricordi lontani, dei tempi in cui la redazione dell’Espresso in Via Po 12 era una seconda casa per i giornalisti e le loro famiglie. Il vecchio Espresso, quello con il foglio gigantesco difficile da maneggiare, chiudeva il numero il martedì all’ora di pranzo per poter essere in edicola il giovedì mattina. Puntualmente, alle 13.00 tutti coloro che lavoravano al giornale si trasferivano all’Acquacetosa dove aveva luogo una partita di calcio protofantozziana. C’era chi come Manlio Cancogni eccelleva anche con i piedi, anche se l’asso in assoluto era un fattorino soprannominato Ugo “Porcellino” che, letteralmente, non faceva vedere la palla agli altri. Mio padre giocava all’ala destra mentre Eugenio, tentando d’emulare Franz Beckenbauer, si piazzava nell’oggi obsoleta posizione di libero, alle spalle della difesa. Nella seconda metà degli anni sessanta, complice l’età che avanzava, in coincidenza con l’epoca caratterizzata dal processo De Lorenzo, il pallone cedette il passo al poker di cui era grande appassionato Lino Jannuzzi, compagno d’avventure di Eugenio in quel periodo che si concluse con l’elezione d’entrambi in Parlamento nelle fila del Partito Socialista Italiano. Si cominciava a giocare martedì dopo pranzo e raramente si finiva in tempo per essere a casa a cena.

Gli anni a Montecitorio, 1968 – 1972, costituirono uno stacco tra le due feconde stagioni giornalistiche della vita di Scalfari. Al rientro nel mondo della carta stampata, io, all’epoca adolescente, lo percepivo diverso, più distaccato, soprattutto nel periodo che precedette la nascita de La Repubblica nel gennaio 1976. Ovviamente, le mie sensazioni erano figlie del suo rapporto con mio padre, Antonio. La separazione dei miei genitori nel 1970 aveva probabilmente acuito il distanziamento, già in atto per via della sua uscita dall’Espresso. Inoltre, andava considerato il fortissimo rapporto d’amicizia che esisteva tra mia madre Marjorie e sua moglie Simonetta. Ci volle qualche anno, e forse anche la tragica scomparsa di mia madre nel 1977, perché le cose tra Papà ed Eugenio tornassero armoniose, anche se diverse da quando, poco più che trentenni, erano rispettivamente vicedirettore e redattore capo dell’Espresso sotto l’ala protettiva del comune mentore Arrigo Benedetti.

Era, infatti, avvenuta in quegli anni una polarizzazione che li aveva indirizzati in direzioni opposte. Mio padre, con l’età, si era radicalizzato sempre di più, soprattutto in materia di politica estera in cui vedeva tutto il male possibile nella crescente egemonia mondiale statunitense. Eugenio, com’era più naturale, con il tempo, era diventato sempre più istituzionale e, soprattutto, pragmatico. La divergenza emerse chiaramente da un episodio. Alla fine degli anni ottanta, Papà decise di non collaborare più con La Repubblica in quanto non gli veniva garantito che i pezzi da lui prodotti uscissero nelle date prestabilite. Sorte volle che pochi giorni dopo questo pronunciamento paterno io mi ritrovassi, per caso, a fianco di Eugenio su un volo che da Roma ci portava a Venezia. Addolorato della recente cessazione della collaborazione, Eugenio mi spiegò i motivi, incontestabilmente logici, per cui, da direttore del giornale, non poteva garantire a mio padre ciò che egli richiedeva. Mi trovai pienamente d’accordo con lui, ricordandogli, al contempo, il carattere particolarmente intransigente di Papà che, in questo caso, lo aveva portato ad una scelta forse affrettata ma sicuramente coerente con il suo stile di vita.

I disaccordi professionali, tuttavia, non intaccarono mai il forte legame affettivo esistente tra i due. Un paio d’anni prima di morire, mio padre, criticandomi sul modo in cui operavo da presidente federale, mi disse testualmente: “Dovresti prendere esempio da Eugenio. Quando lui svolgeva le riunioni di redazione all’Espresso era come assistere ad un grande direttore che dirige la sua orchestra. Non alza mai la voce: ascolta, valuta e, alla fine, decide.”

Causa la malattia di Papà, non si videro più negli ultimi anni ma, in occasione delle sue esequie, il 4 maggio 2009, Eugenio lo commemorò come meglio non si sarebbe potuto, celebrando idealmente con lui un intero gruppo di giovani che, risorgendo con tante speranze dalle macerie della guerra, avevano provato a forgiare un Italia migliore.

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