“Ci sono interviste che nascono per una intuizione”: Scalfari e lo storico colloquio con Enrico Berlinguer
Per raccontare il giornalista, Eugenio Scalfari, bisogna raccontare anche lo Scalfari intervistatore. E per raccontare l’intervistatore Scalfari si deve raccontare la sua intervista più famosa, quella sulla “Questione morale” a Enrico Berlinguer
Per raccontare il giornalista, Eugenio Scalfari, bisogna raccontare anche lo Scalfari intervistatore. E per raccontare l’intervistatore Scalfari si deve raccontare la sua intervista più famosa, quella sulla “Questione morale” a Enrico Berlinguer.
E se oggi posso fare questo scavo, e ricostruire questa pagina, è perché andai a intervistare Scalfari a casa sua, per un libro, e perché così – avendo davanti agli occhi sia l’intervista che l’uomo – mi ritrovai di fronte alle prove di un saggio di maestria che si poteva decrittare, spiegare, comprendere meglio, come se dopo aver amato il piatto di un chef si potesse ammirare la registrazione del suo lavoro segreto in cucina.
Scalfari quel giorno mi raccontò: “Ci sono interviste che nascono solo per una intuizione al buio, perché capisci che il momento è maturo perché alcune idee prendano una determinata forma nella tua testa. In quei giorni del 1981 Berlinguer aveva dato tanti segnali diversi, e tanti messaggi pollici di rottura: aveva messo fine all’alleanza con la Democrazia Cristiana, aveva lanciato la proposta dell’Alternativa democratica, aveva detto non solo che bisogna incaricare un presidente del Consiglio ‘non democristiano’, ma anche che, ritornando alla lettera della Costituzione, bisognava liberarlo dal giogo dei partiti. Ma io che ritenevo di conoscerlo molto bene, anche se in quei giorni non avevo avuto modo di parlarci a lungo – aggiungeva Scalfari – sapevo che c’era qualcos’altro che andava detto, qualcosa che nella sua testa era a monte di tutto questi ragionamenti, e che mi sembrava importante da esplicitare. Ne parlai, a più riprese, con il portavoce di Berlinguer, Tonino Tatò. E poi, quando dopo che con questi abboccamenti mi fu chiaro che quell’intuizione era corretta, formulai una richiesta ufficiale di una intervista al segretario”.
Qualunque dialogo, e quel testo lo spiegava benissimo, è sempre frutto di una relazione: “Di solito, anche avendo un solido rapporto con Berlinguer – spiegava Eugenio – un’intervista di quel tipo, seguiva una lenta trafila, sia prima che dopo essere stato trascritto. Invece in pochissimo tempo ricevetti una telefonata amichevole di Tonino che con una punta di entusiasmo mi diceva: ‘Te la da! Enrico accetta!’. Tatò – aggiungeva Scalfari divertito, forse anche un po’ compiaciuto – mi sembrava contento, come se anche lui avvertisse questo stato d’animo di Enrico, il bisogno di esplicitare qualcosa di più. Mi fu dato un appuntamento, ci mettemmo intorno ad un tavolo e iniziammo a discutere, apparentemente a ruota libera”.
Cosa avrei pagato per esserci. Faccia a faccia si ritrovavano il leader del più grande partito comunista dell’Occidente e il suo direttore preferito. C’è una foto bellissima di Scalfari e Berlinguer, che si ritrovano insieme dietro ad un tavolo ad una iniziativa di La Repubblica. Scalfari se lo guarda, Enrico sorride.
Un racconto senza parole/E quel giorno fu anche questo feeling a unirli: “Parlammo per ore. Io – ricordava Eugenio – seguivo un filo logico che avevo in testa, lui ne aveva uno suo: segnai pochi appunti, man mano che la conversazione procedeva, prendendoli su alcuni fogli di carta bianca di piccolo formato. Poi, tornato al giornale, davanti alla tastiera, ricostruii di getto, a memoria, tutta l’architettura di quel discorso”.
Grande lezione di giornalismo: era come recuperare la scatola nera di un volo nella notte, come leggere la sceneggiatura di un film. Persino il racconto di un pomeriggio di lavoro a piazza Indipendenza diventava epico e avvincente: “Berlinguer era uno dei pochi politici che mi considerava e di cui anche io mi consideravo ‘amico’. Poteva capitare che cenassimo insieme a casa mia, o a casa sua. Ancora più frequentemente accadeva che lo facessimo in ‘campo neutro’, proprio a casa di Tonino Tatò. Ma questo non cambiava la dinamica dei nostri rapporti professionali: quando poi la prima stesura del l’intervista era messa nero su bianco, con lo stesso Tatò iniziava un lavoro minuzioso di limatura su come rendere più fedelmente la discussione che avevamo fatto, e talvolta finivamo anche per lottare, magari per una sola parola o per un semplice aggettivo, anche per una singola virgola che per Berlinguer era importante come un titolo.
Invece, quel giorno, di una intervista sterminata, con mio grande stupore – aggiungeva Scalfari – ritoccammo poco o nulla. E mi accorsi subito, mentre la rileggevo in pagina, che la portata di quel testo avrebbe trasceso quella della cronaca politica, del clima in cui era stato concepito”.
L’ex direttore de La Repubblica svelava, solo a questo punto, un altro dettaglio del suo metodo: “Scrissi solo alla fine un ultimo elemento, il cappello introduttivo, una sorta di corsivo che per me diventava importante per far capire al lettore anche lo stato d’animo, la passione particolare che avvertivo in Enrico quel giorno. Nella mia testa era come la prefazione di un saggio, ed iniziava così:
“‘I partiti non fanno più politica’, mi dice Enrico Berlinguer, e ha una piega amara sulla bocca e, nella voce, come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di formule politiche, di slogan politici, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall’Alpi al Lilibeo…”.
Berlinguer non aveva accettato quella mia prima provocazione: ‘No, no, non è così. Politica – aveva detto – si faceva negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e al di là delle asprezze polemiche – diceva Berlinguer – ne era ricambiato’. Così – ricostringa Eugenio – gli avevo chiesto: “Oggi non è più così?”. Berlinguer mi aveva risposto: ‘Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia’”.
Di fronte a questo a Scalfari che rileggeva il Berlinguer di Scalfari come se mi stesse rivelando un segreto industriale, io confesso, ero rimasto a bocca aperta. E gli avevo subito chiesto cosa era accaduto poi. Scalfari proseguiva così: “Io lo incalzavo provocandolo: ‘La passione è finita? La stima reciproca è caduta?’. Era stata la risposta a quelle domande – aggiungeva – a farmi capire che il nostro dialogo toccava delle corde di verità che abitualmente era difficile trovare nell’intervista di un politico: ‘Per noi comunisti – mi diceva Enrico – la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti’”. Come la pagina di un grande classico. Come un libro che si conosce a memoria.
E poi, mentre con Scalfari ricostruivo quel botta e risposta, si tornava al retroscena della salumeria di carta stampata, il luogo dove il fondatore di La Repubblica non aveva rivali: “Scrissi altre quarantamila battute, in preda ad un’ansia quasi febbrile, ma anche provando una enorme soddisfazione, come talvolta capita per le interviste. Quarantaquattromila battute non stanno neanche in tre pagine di un formato tabloid. E ricordo che Gianni Rocca, vicedirettore del giornale, che pure era entusiasta di quel testo, mi disse: ‘Ti prego Eugenio, togli qualcosa, così diventa un libro!’. Non tagliai nemmeno una riga, ma Gianni aveva ragione: effettivamente era diventato un libro”.
Adesso, quarantuno anni dopo, quell’intervista a Berlinguer è diventata davvero un libro. E – ovviamente – è accaduto qualcosa di più: la “Questione morale”, grazie a Scalfari, è diventata per sempre una delle voci ineludibili nel vocabolario della politica italiana.