Essere gay a Sanremo
Su tutti i social è un gran parlare della vittoria dei Maneskin in quel di Sanremo: come accadde due anni fa per quella di Mahmood c’è una totale spaccatura tra il “popolo”. Ovviamente i commenti più divertenti sono quelli che vedono i Maneskin come dei figli del demonio, portatori del male e della “teoria gender” (che nessuno peraltro ha ancora capito cosa sia). Ma torniamo un po’ indietro nel tempo: io sono nato negli anni ’70 e presto ho scoperto di essere gay in un mondo che non mi prevedeva.
Nessun modello positivo, nessuna rappresentazione, nessuna discussione. Solo pregiudizio, visioni negative, silenzio e negazione (in tal senso vi invito, se non l’avete già fatto, a vedere “Comizi d’amore” di Pasolini: sono interviste alla gente comune degli anni ’60 a cui viene chiesto un parere riguardo a temi del vivere comune tipo l’omosessualità. Il più gentile la definisce come un abominio).
Anche se è stato terribilmente complicato capirmi e ha previsto un bel po’ di sofferenza interiore, ho passato un’adolescenza senza troppi problemi, anche se attorno mi accorgevo che, per molti, prendere coscienza di sé e dichiararsi ha significato perdere amici e lavoro. Allora era così.
Nel 1994 a Sanremo arrivò l’ormai dimenticato Federico Salvatore con la prima canzone a tematica LGBT: quella “Sulla porta” che venne, ovviamente, censurata: “Sono un diverso mamma: un omosessuale!” diventò “Sono un diverso mamma e questo ti fa male”.
Lo stesso anno, per una sorta di casuale Armageddon, a turbare le menti benpensanti arrivarono pure Elton John e Ru Paul, colui che vent’anni dopo verrà inserito nell’elenco delle 100 persone più influenti del mondo del Times.
Nel frattempo, mentre in America erano realtà da anni, in Italia cominciava a nascere e crescere (a Bologna venne data la prima sede pubblica a un circolo omosessuale, il Cassero, nel 1982) l’associazionismo LGBT.
Tutti noi abbiamo scoperto che potevamo lottare insieme a tante altre ed altri. Sono stati anni incredibili in cui abbiamo manifestato, sfilato, volantinato, discusso, promosso, approfondito, litigato, picchettato, protestato.
Mi ricordo ancora quando, per una consultazione elettorale, riempiemmo la città di cartelli con scritto “W Bologna Busona”. Un celebre concorso “The italian Miss Alternative”, ebbe ospite in giuria Nicoletta Mantovani, vedova Pavarotti, allora assessora cittadina alla cultura, e durante le premiazioni le venne “passato” un enorme vibratore. La foto finì addirittura sul New York Times.
Eravamo veramente “riot” e ci siamo presi risate, insulti, contestazioni e (male)parole. Ma piano piano e con grande fatica le cose hanno iniziato a cambiare. Non subito sulla riviera ligure: in quegli anni due canzoni “culturalmente” molto diverse come “Luca era gay” di Povia (storia di una “guarigione”) e “Il mio amico” della Tatangelo (dove Anna racconta come stia bene col suo caro amico che si trucca) raggiungono il secondo posto.
Gli stereotipi stanno prendendo il posto dell’oblio. È comunque un passo avanti. La rivoluzione culturale è diventata prima sociale poi politica con la legge sulle unioni civili.
ESiamo al 2021: io quest’anno festeggio i 10 anni di matrimonio ed ora a Sanremo, la trasmissione nazionalpopolare per eccellenza ci sono anche gay, lesbiche, bisex dichiarati; c’è Achille Lauro ed altri eterosessuali che giocano con tutto l’immaginario Lgbt, ci sono discorsi e battute.
E nella serata finale è apparso persino uno spot sul turismo che propone la Liguria come meta gay friendly. Insieme ai Maneskin, gruppo che ha fatto dell’essere gender fluid la sua cifra stilistica, abbiamo vinto anche noi. E se ad Adinolfi, Pillon, al vescovo di Albenga e a tutti quelli che stanno lanciando strali in queste ore non sta bene: ce ne faremo una ragione e, soprattutto, ormai sappiamo dove collocare questi soggetti. Fra i vecchi e inutili arnesi di una storia sconfitta.
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