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Home » Opinioni

Gli errori di Draghi: così il grande favorito è inciampato sulla strada per il Quirinale

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Il modo migliore per preparare una candidatura al Quirinale è sempre quello di mostrarsi il più distaccati possibile dalla scena pubblica nel periodo a ridosso del voto. Qualcosa che sembrava naturale per chi, come Mario Draghi, fino a oggi ha mantenuto un profilo ai limiti dell’ascetico nel confrontarsi con stampa e opinione pubblica, abituato da bravo ex banchiere centrale a lunghi silenzi e parole dosate bene, consapevole delle conseguenze su Borse e mercati.

Eppure proprio quel Draghi, ancora oggi tra i favoriti per il Colle, indubbio nome di primo piano tra le figure pubbliche italiane e altrettanto indubbiamente qualificato a ricoprire la più alta carica dello Stato, sembra essersi impantanato proprio nella gestione delle parole e dei silenzi, perché anche il tecnico più bravo quando si deve confrontare con i partiti e con la politica ha le sue difficoltà.

E così anche il valido Draghi, nel portare avanti la sua legittima ambizione di accasarsi al Quirinale, ha inanellato una serie di leggerezze, errori e irritualità che hanno portato la sua elezione a diventare ben meno agevole di quanto in origine si sarebbe potuto pensare.Quando a inizio 2021 Draghi fu chiamato a formare un governo, la sua missione era ben chiara: accompagnare il Paese nella gestione dell’emergenza pandemica.

Oggi, con i casi di Covid che superano generalmente i 100mila al giorno, con centinaia di vittime al giorno, e con il Pnrr e la ripartenza ancora in corso d’opera, è difficile pensare che questo compito si sia concluso. Nonostante questo, Draghi non ha mai celato particolarmente l’ambizione a succedere a Sergio Mattarella alla scadenza del mandato presidenziale, a inizio 2022, malgrado mancasse un anno alla fine della legislatura. In un punto in cui sarebbe stato difficile immaginare che l’ambiziosa missione del “governo dei migliori” sarebbe già stata completata.Con una politica che da anni sembrava aver commissariato ad altri, tecnici in primis, il proprio ruolo, le possibilità per Draghi di raggiungere il Colle sembravano più che alla sua portata, non fosse che anche nei momenti in cui non dà il meglio di sé, la politica rimane sempre un rebus indecifrabile per chi non è strettamente del mestiere.

E un “tecnico”, per quanto qualificato e abituato a trattare con le più influenti figure politiche del globo terracqueo, tendenzialmente non lo è, fatto che spiega gli errori inanellati.Prima di tutto, Draghi non ha mai celato la sua – legittima, sia chiaro – ambizione di raggiungere il Quirinale. In secundis, pur ricoprendo il ruolo di presidente del Consiglio, non ha pensato al fatto che si ritroverebbe a dover gestire la transizione verso un nuovo esecutivo che inevitabilmente si sarebbe dovuto formare dopo la sua ipotetica elezione al Colle.

Nonostante gran parte dello spettro politico lo sostenga, fatto che ha contribuito a renderlo il favorito prima di queste elezioni. Ma sappiamo bene che quando oltre mille persone vanno a votare ci sono miriadi di peones, malpancisti, conte e distinguo, in grado di minare anche la più solida delle candidature, tanto più in un momento in cui per tante ragioni i partiti non sono in grado di controllare i rispettivi gruppi parlamentari, col rischio di dare spazio a innumerevoli franchi tiratori in grado di impallinare chiunque.In questo contesto, i partiti hanno avuto tutti i timori del caso sul post-Draghi, chiedendo rassicurazioni su un esecutivo che si sarebbe dovuto formare senza il suo collante, l’ex capo della Bce, e in cui qualsiasi partito avrebbe avuto le proprie richieste specifiche.

Perché caratteristica delle elezioni è che ci sono sempre vincitori e vinti, e se mandando Draghi al Quirinale avrebbero (forse) vinto tutti, non si sarebbe potuto dire lo stesso di un eventuale nuovo governo.Ma Draghi, lì per lì, nonostante le ambizioni quirinalizie si fossero palesate nella conferenza stampa di fine anno, quella in cui si definì un «nonno a disposizione delle istituzioni», e nonostante il silenzio nella conferenza stampa sulle ultime misure anti-Covid fosse stato abbastanza eloquente, non sembrava interessato a occuparsi del futuro esecutivo, per quanto si tratti di un elemento determinante. E dopo che i partiti glielo hanno fatto notare, il grande asceta si è trasformato in grande telefonista, contattando uno a uno i principali leader del Parlamento per capire le loro prospettive sul futuro prossimo del Paese.

Così, colui che sembrava un’inarrivabile figura del panorama istituzionale italiano è sceso a sporcarsi le mani nell’agone politico, con tutta la buona volontà del caso ma senza l’esperienza di un parlamentare di lungo corso, abituato a questo tipo di cose, mettendosi così a dover mediare, ad ascoltare paure e prospettive dei leader politici dai quali si aspettava il voto ma di cui aveva messo in disparte certi aspetti.

E ha provato allora quello che dai media è sembrato un tutt’altro che ortodosso giro di consultazioni sul suo futuro, quasi come fosse un anticipo rispetto al proprio potenziale ruolo di presidente della Repubblica. In questo contesto ha ascoltato necessità e prospettive dei partiti senza però avere possibilità, almeno per il momento, di dare piene rassicurazioni. Ha lasciato così il suo ruolo di asceta, ha provato a sporcarsi le mani.

Ma si è improvvisato in un ruolo che ha provato a fare suo troppo tardivamente, e tutta la forza del Draghi arrivato a salvare l’Italia sembra venuta meno, trasformandolo in uno dei tanti che provano a tessere disegni governativi e quirinalizi, ma senza l’esperienza di tanti che lo fanno da prima di lui. E così anche il grande generale si è impantanato in quella palude che da decenni miete migliaia di vittime: può ancora vincere? Sicuramente sì, ma la domanda è: a che costo?
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