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Regionali, 3 scenari per il dopo-elezioni (di Luca Telese)

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Alla fine, pensateci, questo è di nuovo un voto sul governo gialloverde. Non il governo di quest’anno: quello di un anno e un secolo fa. I bei tempi (si fa per dire) dei litigi sugli sbarchi, sulla Tav, sulle nomine: mesozoico. Perché noi siamo in attesa del risultato delle elezioni regionali, ovviamente, ma quello che ci arriverà lunedì sarà un referendum sulla politica. Non quella di quest’anno, però, ma quella che è finita con la crisi dell’estate scorsa.

Il voto sul referendum costituzionale (comunque vada e comunque la si pensi su cosa votare) diventa una sorta di sondaggio-nostalgia sul “Come eravamo” del M5s. È una specie di revival della vecchia battaglia contro il Parlamento imposta agli alleati di governo vecchi e nuovi (la Lega prima, il Pd poi) in cambio del potere.

Mentre il voto sulle elezioni regionali viene caricato di un significato politico nazionale con una operazione che riproduce pari pari la strategia di Silvio Berlusconi del 2000. Allora il Cavaliere sognava il ritorno al governo dopo il disastroso naufragio del 1994: usò la leggendaria nave Azzurra per rendere un racconto nazionale i voti delle elezioni regionali, e con questo trucco gli riuscì addirittura di sfrattare da Palazzo Chigi Massimo D’Alema.

Il voto del 2000 era in realtà la prova di appello dopo il 1994 passato a combattere contro il pool di Mani Pulite, il voto del 2020 per Matteo Salvini è la prova di appello dopo il 2019, passato in penitenza per gli eccessi del Papeete. I due voti – data la stagione – sono diventati i tardivi “esami di riparazione” del governo gialloverde. E qui arriva la prima domanda: a noi cosa importa? Poi la seconda: cosa si muove a sinistra?

Nel campo del governo convivono diversi stati d’animo. C’è Matteo Renzi, il ripetente dispettoso: ha già perso il suo treno, non ha più la forza di imporsi come guida, forse dopo questa carriera non brillante andrà finalmente a lavorare. E allora, in quattro regioni su sei, Matteo gioca l’unica partita che gli è rimasta da giocare: far perdere gli altri.

Poi c’è Luigi Di Maio: da ministro degli Esteri è andato a fare campagna nei trulli, per giunta contro Michele Emiliano. Da qui la battuta caustica di Goffredo Bettini: “Se lo vedessimo impegnato allo stesso modo in Liguria, a sostenere Ferruccio Sansa, dove c’è la stessa alleanza di governo, saremmo più contenti”. Innegabile. Ma Di Maio in questo frangente sembra lo studente privatista che si presenta davanti alla commissione per prendersi il suo “pezzo di carta”, il diploma che ha mancato, quello che gli serve per riconquistare la leadership perduta del Movimento.

Giorgia Meloni ha tre cavalli che corrono per lei: uno è il candidato di Fratelli d’Italia in Puglia (il giovane-vecchio – per sua ammissione – Raffaele Fitto), l’altro è il candidato di Fratelli d’Italia nelle Marche. Il terzo, il più potente, è se stessa. Il suo partito vola, si sta mangiando senza clamore un pezzo di Lega: Giorgia, che era al 4% solo un anno fa, sembra una studentessa due anni in uno, che si presenta davanti agli elettori perché vuole fare in soli dodici mesi quello che a Salvini è riuscito in cinque.

Silvio Berlusconi, dopo aver sconfitto il Covid sembra uno di quegli studenti fuori corso che, quando dopo una lunga malattia si presenta davanti agli elettori, fa simpatia anche ai professori che un tempo non lo potevano vedere. Carlo Calenda studia nel suo liceo privato di Azione (se lo finanzia tutti lui, non gli si puoi dire nulla) e lì ha tutti i voti alti. Alessandro Di Battista sembra uno di quei compagni che tornano dopo aver fatto un anno all’estero, al college “Marylin Monroe” (beato lui). Mentre Gianluigi Paragone è l’immancabile ribelle che si è fatto espellere per indisciplina dal liceo grillino e tira qualche sassata sui vetri della ex scuola.

In questa scolaresca così eterodossa Giuseppe Conte si comporta come il preside che affigge i quadri, ma non si sente mai sotto esame. Mentre Nicola Zingaretti è giunto al vero dilemma: quando aveva potuto scegliere lui come correre, alle europee, ha preso ottimi voti (4 punti più di Renzi). Ma questo voto sembra per lui un episodio di “Ritorno al futuro”, dove lui si sente come il povero Michael J. Fox che si ritrova trascinato, senza volerlo, nel passato: il cellulare non prende perché non c’è connessione, i suoi amici non rispondono al telefono perché non sono ancora nati, quel tipo bifolco che sputa nel bar e porta il cognome del suo partito in realtà è suo nonno.

Non ha scelto Zingaretti Michele Emiliano, non ha scelto lui Vincenzo De Luca, non ha scelto lui in Val D’Aosta. Non ha scelto lui in Toscana, dove il candidato brocco che sta facendo tremare la coalizione nella sua fortezza un tempo rossa (l’evanescente Eugenio Giani) è l’ultimo dolcetto-scherzetto che gli è stato lasciato in dote da Renzi. L’ex premier si è scelto lui il cavallo spompo, prima di andarsene dal Pd (un vero colpo di genio) e ha persino contrattato con il malcapitato la non-presentazione di una propria lista civica, perché non danneggiasse la corsa del feto sottopeso di Italia Viva. Bella pensata: oggi quei tre-cinque punti, secondo alcune stime, potrebbero essere la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

Morale della favola: Zingaretti ha potuto scegliere solo due candidati che corrono in due regioni, per ovvi motivi quelle che non avevano “uscenti”, quelle che secondo tutti i dati erano virtualmente già perse (Liguria e Marche). Ma tuttavia verrà giudicato su candidature che hanno “preparato” altri. E indovinate chi c’era quando sono stati investiti Emiliano e De Luca? Sempre Renzi (adesso entrambi lo detestano, ma questa è un’altra storia).

Ed ecco gli scenari più probabili:
1) Cinque a uno. La destra vince ovunque tranne in Campania. Sarebbe una Caporetto. Ma, proprio per questi motivi appena ricordati, Renzi farebbe bene a partire per il Congo e non farsi più vedere. Tuttavia nel Pd si ballerebbe comunque, e molto, perché qualcuno la testa del leader la chiede. Stefano Bonaccini potrebbe sfidare Zingaretti e si verificherebbe un bel duello vero tra destra e sinistra nel partito magari (ancora meglio – per chi scrive – se la destra che vuole il renzismo senza Renzi lo perde).

2) Quattro a due. La destra vince ovunque tranne che in Campania e Toscana: Giani si salva malgrado il suo ingombrante padrino di Rignano (e se stesso), il conto della sconfitta è appena attenuato, ma per ovvi motivi il tema diventa l’alleanza con il M5s, dunque l’unica linea possibile è romperla, come vorrebbe la destra (suicidio certo, con Salvini che marcia su Palazzo Chigi) o rinsaldarla: e in questa chiave, paradossalmente Zingaretti si rafforzerebbe. Ma si balla comunque, e tanto.

3) Tre a tre. Alla Toscana e alla Campania si aggiunge la Puglia, con un colpo di reni miracoloso di Emiliano (le altre le prende la destra). È vero che il centrosinistra perderebbe due regioni, ma questo dato era già scritto nel dato delle europee, e allora non ci sarebbe dibattito né nel M5s né nel Pd. Non si balla per nulla, il governo va dritto fino al semestre bianco, il presidente della Repubblica lo elegge questo Parlamento. Salvini viene ridimensionato, e le prossime elezioni politiche diventano a destra una nuova sfida a due fra una secchiona emergente e uno scolaro brillante, che però ha fallito tutte le prove. A sinistra i giallorossi superano l’esame Covid e quello delle amministrative, il preside Conte diventa provveditore agli studi, e il candidato premier (come immaginato due anni fa da Goffredo Bettini).

Dovendo scommettere un euro lo punterei sulla secchiona a destra e su Conte a sinistra. Ma il punto decisivo è questo. A prescindere dal pallottoliere, la destra resta fortissima nel paese, capace di aderire come carta moschicida su cangianti e feroci spiriti animali del suo tempo. Egemone anche quando i suoi leader si scannano, competitiva anche quando perde argomenti (l’immigrazione non tira più), comunque capace di interpretare alcuni sentimenti profondi e liquidi di un paese insoddisfatto.

Quando assisto allo spettacolo del centrosinistra che governa senza riuscire a comunicare nemmeno quello che fa, e che spesso quando lo fa – vedi la scuola – lo comunica male, mi viene in mente che la maledizione del Titanic, dove si balla mentre si rischia di affondare, accomuni il meglio delle “elites” (passatemi il termine) e dei “barbari” (passatemi il termine) che sono l’ossatura e la ragione di questo governo. C’é un ottimo frontman (Conte), ma manca un grande narratore, e quindi un grande racconto.

Il salvinismo, invece, sotto alla sovrastruttura dei mojtos, dei selfie, della lotta alle mascherine, ha sempre lo stesso potente racconto di sempre, un libro proibito la cui lettura tenta ancora un pezzo di paese. È l’idea dei pieni poteri, dell’uomo forte, del leader che ci spoglia anche dell’ultima crisalide del bossismo per provare a librarsi in volo e proporsi come una risposta semplificatoria e catartica alla crisi italiana.

Inseguire questo Salvini e questo centrodestra, oggi, è come andare a vedere la quarta serie della “Casa di Carta” su Netflix: ci sono nuove puntate, è vero, ma la storia è la stessa e gli attori anche. E se questo film non vi è piaciuto nel 2018, quando ne parlavano tutti, figuratevi se può interessarvi ora, che davanti allo schermo di Telecapitano è rimasto lo zoccolo duro dei fedelissimi.

Io, quando penso a questa storia, rimpiango i bei tempi in cui quelli che andavano agli esami di riparazione senza aver studiato potevano essere ancora bocciati.

Leggi anche: La vera storia di cappuccetto rosso Bonaccini e del lupo di Rignano (di Luca Telese)

Tutte le notizie sulle elezioni regionali del 20-21 settembre
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