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Patrick Zaki, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

Immagine di copertina

L’Italia resta uno dei primi partner commerciali dell’Egitto, il cui ruolo nello scacchiere energetico mediterraneo sembra insostituibile, ma gli affari non devono necessariamente rappresentare un ostacolo alla difesa dei diritti umani, anzi

Egitto-Italia, gli affari possono diventare un’arma per liberare Patrick Zaky

“Se fosse stato italiano, l’avremmo rimandato a casa”. Così un’emittente privata egiziana, in uno spezzone trasmesso ieri, mercoledì 12 febbraio 2020, su Rai 3 da Chi l’ha visto, sminuisce la triste vicenda dell’attivista e ricercatore egiziano, arrestato e torturato dalle autorità del Cairo, facendo temere un altro caso Giulio Regeni, tornato in Italia senza vita nel 2016 con evidenti segni di tortura.

A quattro anni dall’omicidio del ricercatore friulano e con migliaia di persone arrestate e tenute in stato di detenzione preventiva che, secondo Amnesty International, dura in media 345 giorni, l’opinione pubblica italiana si trova direttamente davanti all’ennesimo esempio di violazione dei diritti umani in un Paese con cui manteniamo un enorme giro d’affari.

Il commento del conduttore di TeN tv ricorda il sollecito intervento del ministero degli Interni del Cairo, che due giorni dopo l’arresto dello studente dell’Alma Mater di Bologna si affrettava a specificare la nazionalità egiziana del fermato, come fosse legittimo “far carne” di un connazionale ma non di uno straniero.

Ma perché le autorità del Cairo non dovrebbero voler (più) sottoporre “un italiano, come un americano o un tedesco” al destino di Regeni, Zaky e migliaia di altri?

La risposta risiede nei rapporti e nell’interdipendenza economica e strategica tra Roma e il Cairo, in nome della quale si continua a ignorare palesi forme di persecuzione dei diritti umani come il cosiddetto sistema del “ciclo” (in arabo: التدوير) di detenzioni, recentemente denunciato dall’avvocato egiziano per i diritti umani Mai El-Sadany e applicato dalle autorità del Cairo, che prima arrestano un individuo per una serie di accuse e poi ne ordinano il rilascio, disponendo però immediatamente un nuovo fermo per altri capi di imputazione, in un infinito circolo vizioso di interrogatori e vessazioni ai danni di dissidenti e attivisti.

I grandi affari conclusi tra Italia ed Egitto, in particolare su energia, armi, industria meccanica e banche, spesso additati a giustificazione della timida reazione di tutti i governi italiani nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte del regime del generale Abdel Fatah al-Sisi, potrebbero costituire invece un efficace strumento nelle mani della nostra diplomazia per fare pressioni su un partner considerato insostituibile.

Pecunia non olet, gli affari dell’Italia con l’Egitto

Il nostro Paese rappresenta da anni uno dei maggiori partner commerciali dell’Egitto e i numeri lo dimostrano. Secondo i dati forniti dall’agenzia ICE, tra il 2015 e il 2018, l’Italia si è giocata insieme a Emirati Arabi Uniti e Turchia il vertice della classifica delle principali destinazioni delle esportazioni egiziane, conquistando il primato due anni fa e diventando nello stesso periodo il sesto maggior Paese importatore di beni prodotti in Egitto.

I dati forniti dalla nostra ambasciata al Cairo mostrano invece come le importazioni dell’Italia dal Paese nordafricano abbiano superato gli 1,36 miliardi di euro nei primi nove mesi dello scorso anno, quando il Bel Paese esportò in Egitto oltre 1,54 miliardi di beni e servizi. La maggior parte dell’interscambio commerciale tra i due Paesi riguardava allora macchinari industriali, prodotti petroliferi, chimici, elettrici, siderurgici, tessili e agroalimentari.

In Egitto operano inoltre alcune delle maggiori aziende italiane, come Eni, Edison, Banca Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, e Cementir. Il cane a sei zampe è presente nel Paese nordafricano dal 1954, dove rappresenta il principale produttore di idrocarburi. L’attuale produzione di Eni in Egitto ammonta infatti a oltre 300 mila barili equivalenti al giorno, che incidono per il 16 per cento sulla produzione quotidiana giornaliera totale dell’azienda. Ogni anno, il colosso energetico italiano produce nel Paese oltre 28 milioni di barili di petrolio e condensati, circa 12,6 miliardi di metri cubi di gas e altri idrocarburi per 110 milioni di barili equivalenti di petrolio. Lo scorso anno, la società di San Donato Milanese ha ampliato le attività in Egitto firmando tre nuovi accordi per l’esplorazione di petrolio e gas nel Mediterraneo, nel deserto del Sahara e nei pressi del Nilo per oltre 139 milioni di euro.

Se nel gennaio dello scorso anno l’Egitto è riuscito a diventare un esportatore netto di gas, il Cairo non fa ormai più mistero delle proprie ambizioni di diventare un hub energetico regionale, grazie anche all’alleanza con Israele, Cipro e Grecia, con cui all’inizio dell’anno ha firmato una serie di accordi intergovernativi per la costruzione del gasdotto East Med, un’opera dal costo stimato di 5,8 miliardi di euro che collegherà i giacimenti al largo del Mediterraneo orientale all’Europa, riducendo la dipendenza del continente dal gas russo e da quello algerino e facendo del Paese un partner insostituibile. Quest’opera, dalla capacità progettata compresa tra i 9 e i 12 miliardi di metri cubi all’anno, potrebbe in futuro esser connessa al nostro Paese tramite il progetto Igi Poseidon, un tratto di collegamento tra East Med e la Puglia.

Allo scopo di aumentare il proprio peso sulla scena energetica mondiale, dal 2014 il Paese nordafricano ha concluso vari contratti di esplorazione e sfruttamento delle risorse di idrocarburi con un totale di 82 diversi investitori, per un investimento minimo di circa 16 miliardi di dollari e la trivellazione di almeno 340 giacimenti. Questa ricchezza fa gola a molte compagnie, come l’Edison, che attualmente conta in Egitto ben nove concessioni, sei delle quali operate direttamente dall’azienda, che impiega quasi 1.000 addetti nel Paese, dove ha investito quasi 2 miliardi di euro in vari progetti distribuiti in tutte le province egiziane ricche di petrolio, come il Delta del Nilo, il Mediterraneo orientale, il Deserto occidentale e il golfo di Suez.

Tutti questi grandi progetti necessitano di importanti finanziamenti e non è un caso che ormai 14 anni fa Banca Intesa Sanpaolo abbia investito 1,6 miliardi di dollari per acquisire Alex Bank (allora Bank of Alexandria), uno dei maggiori istituti di credito locali, che impiega fino a 4.700 persone in 210 filiali. Inoltre, i grandi progetti avviati dal Cairo in termini di infrastrutture come il raddoppio del canale di Suez, nuovi porti e aree industriali, giacimenti di fosfati e nuove città offrono importanti opportunità alle imprese del nostro Paese, non ultime quelle impegnate nella vendita di armi.

Oltre all’energia infatti, anche il mercato della difesa egiziano attrae numerose aziende internazionali del settore, visto che il Cairo ha stanziato in media il 16,5 per cento del proprio bilancio in spese militari. Secondo la Presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2018 l’Egitto, con il suo regime repressivo e militarista, era il decimo Paese al mondo per importazioni di armi e sistemi prodotti nel nostro Paese, per lo più automatiche di piccolo calibro, apparecchiature elettroniche e software per un valore totale superiore ai 69 milioni di euro. A questi affari si aggiungono, secondo l’Osservatorio sulle armi leggere (Opal), oltre 1,5 milioni di euro di prodotti spediti nel Paese africano nei primi 10 mesi del 2019. Alcune indiscrezioni di stampa circolate in questi giorni parlano inoltre di più di 9 miliardi di euro di accordi militari raggiunti con l’Egitto per una serie di caccia da combattimento, fregate, motovedette ed elicotteri prodotte da Leonardo Fincantieri.

Egitto-Italia: una nuova arma per la diplomazia italiana

Questi straordinari rapporti economici tra Roma e il Cairo, considerati il motivo della mancata pressione italiana per la difesa dei diritti umani in Egitto, potrebbero invece rappresentare proprio l’arma in più della nostra diplomazia in questo campo. Il Paese nordafricano, che lo scorso anno ha promesso di dimezzare il tasso di povertà entro il 2020 e di eliminarla entro il decennio successivo, sembra infatti muoversi in una direzione diametralmente opposta in un contesto regionale dove le piazze restano storicamente instabili.

L’Egitto è infatti sempre alla ricerca di nuovi investimenti internazionali e ha un disperato bisogno di creare occupazione per aumentare i consensi, impiegando la manodopera locale, in un Paese in cui la disoccupazione ha raggiunto il 9,9 per cento nel 2018, dove oltre il 33 per cento dei suoi 99 milioni di cittadini sono considerati poveri e vivono con meno di 2 dollari al giorno, in aumento rispetto al 28 per cento del 2015, e dove secondo la Banca mondiale il 60 per cento degli anziani è “indigente o socialmente vulnerabile”.

In questo contesto, secondo i dati dell’Agenzia egiziana per gli investimenti (Gafi), nel giugno del 2018 l’Italia era il sesto Paese al mondo per valore degli investimenti diretti esteri in Egitto, arrivati a 4 miliardi di dollari e impiegati per l’85 per cento nel settore del petrolio e del gas. Lo scorso anno, secondo la Banca centrale egiziana, il nostro Paese si è poi posizionato all’11esimo posto a livello globale per flussi di investimenti diretti nel Paese nordafricano, tornati a oltre 253 milioni di dollari dopo il crollo subito tra il 2010 e il 2018. Alla fine del 2015, secondo i più recenti dati disponibili, operavano inoltre in Egitto 156 aziende partecipate da imprese italiane, che detenevano quote di controllo in almeno 93 società in loco. Tutte queste partecipate impiegavano allora nel Paese nordafricano oltre 7 mila dipendenti, per un fatturato di quasi 2,8 miliardi di euro.

Secondo un’analisi di Banca Intesa Sanpaolo, seppure l’inflazione è rimasta all’interno dell’obiettivo fissato dalla Banca centrale del Cairo, non superiore al 9 per cento, tra il 2016 e il 2018, la crescita nominale dei salari è stata inferiore alla corsa dei prezzi, in particolare di quelli alimentari, soprattutto dei prodotti vegetali, unica fonte di sostentamento accessibile per molti egiziani. Con una situazione sociale di questo genere, anche un regime repressivo come quello del Cairo ha bisogno di aumentare i consensi e la creazione di posti di lavoro di qualità, come quelli che possono essere offerti dalle aziende internazionali, potrebbe rappresentare un’occasione unica.

In questo senso, la forte presenza economica italiana in Egitto potrebbe diventare un punto di forza della nostra diplomazia nei confronti del Cairo, offrendo opportunità sia alle imprese del nostro Paese che ai cittadini egiziani, spingendo le attuali autorità locali, che certamente non si trasformeranno mai in strenue promotrici delle libertà civili, quantomeno a limitare le manifestazioni più bestiali, non solo contro gli stranieri ma soprattutto nei confronti della popolazione. Secondo diversi studi infatti, compresa una ricerca internazionale decennale pubblicata nel 2009 sul rapporto tra disuguaglianze sociali e rispetto dei diritti umani, una maggiore attenzione alla componente socio-economica in un Paese e una migliore distribuzione del reddito diminuisce i rischi di abuso dei diritti di integrità personale.

La rinuncia alla sola fornitura di armi leggere, tecnologie duali, software di sorveglianza e apparecchiature destinate alle forze dell’ordine, pur senza intaccare la vendita di unità militari strategiche e non impiegabili contro i civili, promuovendo allo stesso tempo investimenti diretti e creazione di posti di lavoro di qualità, potrebbe costituire uno strumento di pressione politica a difesa dei diritti umani nel Paese nordafricano. Senza illudersi di riformare un sistema illiberale e paranoico dovremmo almeno tentare di sfruttare il nostro peso economico per “rimandare a casa” i tanti Giulio e Zaky d’Egitto, anche se non italiani, americani o tedeschi.

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