DraghExit: così è finito il mito dell’onnipotente SuperMario
Crisi energetica, Pnrr a rischio, riforme bloccate: il premier ha deluso proprio coloro che avevano acclamato la sua discesa in campo. A partire dagli imprenditori di Confindustria. Finisce il mito dell’onnipotente Mr. Bce
Da “Supermario Bros” a “Supermario Stop”. È finito un mito: non con uno schianto, o per colpa di una insidia imprevedibile, come nel celebre videogioco della Nintendo. Ma, piuttosto, logorato a poco a poco, senza rimedio. Draghi oggi è tornato solo “Mario”, privato della sua aura di uomo della Provvidenza, dopo un lento, progressivo, ma inarrestabile appannamento. Sembra finita la luna di miele con gli italiani. Ed è in crisi persino il fidanzamento con i mitici ceti produttivi, messo a dura prova, come un amore che si ossida e si logora, tra amarezza e malinconia. Ad essere delusi, dopo poco più di un anno di governo, non sono dunque gli oppositori e gli scettici che salutarono la nomina dell’ex governatore della Bce con un fuoco di sbarramento ideologico. Non i Fratelli d’Italia che gli negarono la fiducia, o i centri sociali che lo definirono «Affamatore della Grecia». Non è nemmeno Nicola Fratoianni, l’unico parlamentare di centrosinistra che gli votò contro. Ma invece – per paradosso – ad essere delusi sono proprio coloro che avevano salutato il suo avvento con più entusiasmo: gli imprenditori, gli italiani in crisi, i settori senza ristoro colpiti dalla pandemia, le categorie penalizzate dall’infinita crisi italiana, nell’incastro mortale di burocrazia, guerre e Coronavirus.
La prima scena di questo film potrebbe essere ambientata a Roma, lunedì 4 aprile scorso. Nell’enorme anfiteatro dell’hotel Parco dei Principi. In quel luogo, quella mattina, si erano autoconvocati in tanti: imprenditori del mondo delle infrastrutture, dirigenti dell’Ance, l’autoproclamato «popolo del Pnrr e della betoniera». Il motivo? Semplice: tantissime delle nuove gare di appalto in questi giorni stanno andando deserte (nessuno con i nuovi costi riesce più a competere al massimo ribasso). Mentre il vero dramma è quello che si sta verificando sugli appalti già assegnati, la maggior parte dei quali sono compresi nel Recovery plan. Non c’è nulla di più energivoro di un cantiere, e all’impennata del gas prodotta dalla guerra si aggiunge subito dopo l’esplosione dei prezzi delle materie prime: ferro, acciaio, gomma, legno, solo per citare le più importanti. Risultato? Per molti si sta ponendo una alternativa drammatica: «Il nostro margine è il 4%. Se i costi aumentano del 70% – spiegava Francesca De Santis, imprenditrice di terza generazione dell’omonimo gruppo che lavora con tutti i grandi appalti pubblici – il paradosso è che per noi ormai è preferibile rinunciare all’opera e andare in contenzioso, perché è meno grave perdere l’appalto, purtroppo, piuttosto che fallire provando a tenere aperti i cantieri». Perché questa amarissima assemblea romana è importante per il nostro racconto? Semplice. Perché tutti gli imprenditori che vi hanno preso parte, fino all’ultimo, hanno scelto di non protestare davanti a palazzo Chigi. Pur considerando drammatica la loro situazione, avevano inviato una lettera-appello al presidente del Consiglio, gli avevano chiesto di assistere e intervenire o magari di inviare in sua rappresentanza un ministro o un sottosegretario. Nulla da fare: nessuna risposta, neanche un biglietto. In una sala straboccante – con grande stupore degli organizzatori – non c’era nessun delegato del governo. Così il documento conclusivo si è incattivito: «Abbiamo finito la liquidità, non abbiamo soldi per pagare gli stipendi», ha sintetizzato il siciliano Piero Iacuzzo. «Se entro pochi giorni non arrivano delle risposte, molti di noi finiranno con le gambe per aria. E la cosa che mi stupisce è questa: non capiscono che senza di noi il Pnrr non si fa più».
I primi due motivi della crisi di “Supermario”, dunque, sono presenti negli accenti di disperazione dei tanti autoconvocati del Parco dei Principi: Draghi non riesce a dare risposte proprio sul tema che, fino a ieri, era considerato il suo terreno elettivo, il suo campo di battaglia: la politica economica. E subito dopo ecco il secondo punto critico. Non solo non arrivano le soluzioni, ma mancano anche altre due doti altrettanto importanti: l’ascolto e il dialogo. Nel governo i ministri che girano a vuoto sono proprio i tecnici, i cosiddetti “migliori”. Invisibile e assente dai radar il super ministro Daniele Franco. Confuso, e spesso contraddittorio, l’uomo che doveva avere in mano le chiavi di volta delle scelte strategiche energetiche del terzo millennio: Roberto Cingolani. Evanescente e spesso incerta la guardasigilli Marta Cartabia. Quasi sempre distante e poco concreto il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini. Pur essendo un intellettuale squisito, Giovannini dovrebbe trovarsi su ogni cantiere con un cronometro in mano, a prendere i tempi e semplificare la burocrazia, e invece vive imprigionato al ministero, restio ad accettare inviti, persino delle categorie che sono sue interlocutrici dirette.
Altro aneddoto illuminante: l’assemblea nazionale degli agenti marittimi di Venezia, solo pochi mesi fa: «Prima ha detto che sarebbe venuto – mi racconta un dirigente nazionale – poi che forse non riusciva ad essere “in presenza”, quindi che per un contrattempo era costretto a collegarsi da Roma. Alla fine, incredibilmente, non ha fatto nemmeno quello». Anche nel “mondo del mare”, dopo alcune esperienze non felici, tutti aspettavano con ansia Draghi. E invece, malgrado la guerra imponga investimenti su porti e nuove rotte, tra blocco del Mar Nero ed embarghi, sembra che il governo sia del tutto disinteressato al dialogo. E che dire dell’alimentare? Anche il secondo settore economico più colpito dalla guerra lamenta un abbandono. Se parli con Luigi Scordamaglia, di Filiera Alimentare, ti dice: «I prezzi di grano, mais, fertilizzanti, carni, ortaggi e frutta sono tutti esplosi per via del conflitto in Ucraina. Servirebbero grandi interventi, ristori, nuove strategie, ma non abbiamo ancora avuto risposte».
E se questo è il fronte caldo dei settori economici più colpiti dalle conseguenze del conflitto, ancora peggiore pare la condizione degli altri, quelli su cui il governo si era impegnato con la promessa delle riforme (sottoscritte anche in Europa). Quella della giustizia, per esempio, ha suscitato la reazione dell’Associazione Magistrati, che tra due sabati ha convocato un’assemblea generale degli iscritti (proprio per pronunciarsi contro la riforma Cartabia). Sul catasto, poi, il tira e molla con il centrodestra è diventato una piccola grande telenovela: Draghi ha avocato a sé la cabina di regia sulla riforma, ha minacciato rotture, ha accettato di spostare al 2026 (la prima “riforma postdatata”!) l’attuazione delle norme più controverse, ma continua ad incontrare resistenza strenua.
Viceversa, nel settore delle costruzioni (categoria tradizionalmente più vicina alla destra che alla sinistra) gli ex fan di Draghi oggi sono quelli che poi rimpiangono Conte. Il motivo? Semplice: la campagna del governo contro il Superbonus 110%, che aveva aiutato il settore a resistere alla crisi, producendo (secondo il Sole 24 Ore) un imponente extragettito di 7 miliardi di euro sul Pil. Oggi, dopo le critiche di Franco e dello stesso presidente del Consiglio, dopo le parole del ministro su truffe e appalti fittizi, si continua a introdurre norme limitative, senza riuscire a risolvere i problemi, ma mettendo a rischio cantieri che invece funzionavano benissimo. Uno dei temi più roventi è la norma sulla “cedibilità” dei crediti (dai privati alle banche, e a terzi) che oggi viene continuamente messa in discussione, scoraggiando i nuovi investimenti: il fatto clamoroso è che non si trova una sola impresa libera (perché il mercato “tira” incredibilmente) ma chi inizia un’opera oggi non ha la certezza che nella manovra i diversi bonus saranno riconfermati. Due aspetti che deludono di più (ed era del tutto inatteso) nel processo di de-mitizzazione di “Supermario” sono la subalternità e la dipendenza dei ministri tecnici, e dello stesso presidente del Consiglio, alle ataviche inefficienze delle macchine burocratiche e ministeriali.
Un altro imprenditore, Antonio Ciucci, racconta il suo sconcerto, in una riunione del comitato sui prezzi, di fronte al dibattito sull’aumento del prezzo del bitume: «Discettavano, i dirigenti del ministero e il rappresentante dell’Istat, se il costo fosse aumentato del 5 o del 7%. E io ad un certo punto mi sono arrabbiato: “Ma lo sapete che basta una telefonata per sapere che è triplicato?”. Silenzio. Ho pensato: ma dove vogliamo andare, così?».
Altre categorie – vedi i balneari – sono scese sul piede di guerra per la proposta di mettere a gara tutte le concessioni, malgrado gli investimenti effettuati. Anche in questo caso, dopo lo scontro, tutto è stato congelato. Dice Carlo Calenda che servirebbe – senza dubbio – un commissario straordinario per vigilare sui prezzi. E aggiunge (vedi l’intervista a pagina 26) che il primo vero colpo per Draghi è stato l’affondamento della sua candidatura per il Quirinale, che ha imposto la revisione di tutta la strategia («a breve termine») del suo governo. Non c’è dubbio che sia vero, compreso il passo falso della celebre conferenza stampa di fine anno in cui Draghi disse «La missione del governo è compiuta» (con il senno del poi pare persino una sortita ingenua). A cui seguì la coda grottesca dell’intervista emulativa di Cingolani: «Anche la mia missione è compiuta!». Fu costretto a smentire 24ore dopo. Con il corollario tragicomico che adesso sia Cingolani che Draghi (Covid permettendo) sono costretti a girare il mondo – dall’Algeria al Congo – a caccia di 30 miliardi di metri cubi di gas che mancano all’appello.
Sull’energia, se possibile, il governo ha deluso più che su tutto il resto: infatti l’altro grande amante tradito dall’eclissi di Supermario è Confindustria, terrorizzata dall’esplosione delle bollette produttive. La categoria più colpita, tuttavia, forse è stata quella dei trasportatori, che consideravano insufficiente un “decreto a tempo” per fermare le tariffe dei carburanti. Anche su quel fronte il governo ha rischiato una gaffe clamorosa, perché Cingolani arrivò a dire a Sky «Qui siamo in presenza di una colossale truffa!» ma poi non ha fatto seguire a questa denuncia nessun provvedimento.
Il giudizio più drastico, in uno dei suoi caustici e informatissimi Dagoreport, lo ha cesellato Roberto D’Agostino: «Ormai politologi, giornalisti e persino i friggitori di baccalà concordano: senza la guerra in Ucraina, e le nuove emergenze che ha imposto, il governo Draghi sarebbe già stato accompagnato alla porta». La tesi del fondatore di Dagospia, uno dei pochi che ha infranto il mito dell’intoccabilità del Re Taumaturgo di Bankitalia sui media è questa: è stata proprio la guerra in Ucraina la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’evento che ha nanificato il gigante e ammaccato la leadership. La guerra ha spostato l’asse di Draghi dall’Europa alla casa madre americana. «L’abito da turbo-europeista, proprio quando il bisogno dell’Ue è diventato incalzante, cioè con lo scoppio della guerra – scrive D’Agostino – ha lasciato il posto a una divisa a stelle e strisce. Mariopio s’è offerto a Biden come iper-Amerikano (con la kappa). Né Macron né Scholz né gli altri leader europei – conclude – hanno assunto posizioni così schiacciate sulla linea di Washington». E persino l’olandese Rutte, come racconta lo stesso premier, gli ha risposto picche sulla Borsa di Amsterdam: «Non sono riuscito a convincere Mark sull’idea di fissare un tetto al prezzo del gas». C’è, in questa parabola, l’ennesima riprova sul potere mucillaginoso del Palazzo: il luogo dove in tanti sono entrati con il biglietto della lotteria e sono usciti con il ruolo ingrato, diventati ex di se stessi. «I cimiteri – diceva Georges Clemenceau con cinica ironia – sono pieni di persone “indispensabili”».