Il sorriso di Mimmo De Masi ci ha insegnato che la serenità è la forza più grande
Lo precedeva ovunque – come uno scudo stellare – quel suo inconfondibile sorriso: un centro di gravità labiale permanente, sempre circondato da una corona di barba bianca e rada. Tra le grandi barbe della Prima Repubblica, infatti, quella di Scalfari era scolpita e ieratica, quella di Sergio Cofferati rada e cinese, quella di De Masi candida e solare.
Bisogna sapere che esistono molti tipi di sorriso, nell’almanacco delle antropologie umane: sorrisi pro-forma, sorrisi ipocriti, sorrisi nevrotici, moltissimo sorrisi del tutto inespressivi.
Il sorriso di Domenico “Mimmo” De Masi, invece, non era né l’uno né l’altro, era molto di più di un manifesto umorale, quasi uno stile di vita. Quel sorriso era un modello di comunicazione, un manifesto zen.
“Il professore”, come lo chiamavamo a TPI, partecipava alle nostre riunioni di redazione senza perdersene una. E quando queste riunioni erano on line – ad esempio durante la pandemia – era il primo ed entrare nel collegamento, e quasi sempre l’ultimo a parlare.
Non era un posa o un vezzo: gli piaceva ascoltare tutte le opinioni, lanciare dulcis in fondo provocazioni sapide e – proprio con quel sorriso – dire chi lo aveva convinto e chi no, senza preoccuparsi mai delle gerarchie redazionali, professionali o biografiche.
Con lo stesso volto irrompeva nei programmi, spiegava o polemizzava in tv: sempre dalla stessa parte – come direbbe De Gregori – quella dei più poveri, che per lui non erano mai una cifra in una statistica, ma la ragione di una scelta di vita.
Con la stessa imperturbabile espressione, fece le rivelazioni che portarono alla caduta del governo Draghi, innescando una tempesta di cui nemmeno lui forse (dopo aver rivelato che l’ex banchiere chiedeva a Beppe Grillo di cacciare Giuseppe Conte) aveva previsto la portata.
Il punto è che con quel sorriso tenne botta, e grazie a quel sorriso nessuno poteva dubitare delle sue parole (o sospettarlo di malanimo). Quel taglio di ironia demasiana, dunque – come si può capire dalla parte biografica dell’intervista che pubblichiamo, era figlio di una biografia, ed era un modo di stare al mondo.
Aveva studiato a Parigi con Alain Touraine, era stato amico di Giorgio Napolitano (anche se con posizione politiche molto diverse), ricordava con grande divertimento gli anni in cui era diventato di ruolo a Sassari, con un pugno di colleghi che – come lui – avrebbero fatto parlarle di se: Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Giovanni Berlinguer.
E viene facile immaginarseli come dei moschettieri, questi quattro futuri luminari, davanti al cinema porno cittadino in un giorno imprecisato degli anni sessanta, con Zagrebelsky che protesta preoccupato, come raccontava lui in un aneddoto esilarante: “Non guardate le locandine! Potrebbero vederci gli studenti!”.
I suoi slogan sono diventati koné, patrimonio comune: “La società post-industriale”, “l’ozio creativo”, “il reddito di cittadinanza”: De Masi è stato amico del M5S, ma era ugualmente figlio della sinistra del Novecento, del keynesismo, della democrazia e della prima repubblica.
Era partito dalla polvere, povero, orfano, senza luce né acqua corrente, in una casa venduta per pagare i debiti. Ma era diventato esattamente quello che voleva diventare: un intellettuale influente che con le sue idee poteva provare a cambiare il mondo. Ci ha insegnato, con il suo stile, che la serenità è la forza più grande.
E so già, che mentre in qualche paradiso laico spiega le sue teorie, mostra queste nostre pagine ai suoi interlocutori. E, ovviamente, mentre lo fa, sorride.