Da uomini dell’emergenza a repressori della libertà. Chi sono davvero i dittatori?
Ci sono parole che sentiamo con tale frequenza da non porci più la questione di quale sia il loro significato, finché a un certo punto non succede qualcosa per cui può essere utile comprenderle a fondo, perché come tutto hanno un peso che può influire nella vita, come nella diplomazia. Una di queste parole è “dittatore”, usata nei libri di storia, nei discorsi politici, a destra e a manca ma che, come abbiamo visto, quando Mario Draghi l’ha usata in relazione al presidente turco Recep Tayyip Erdogan è scoppiato un caso, con tutte le sue conseguenze.
Non staremo qui a fare l’esegesi sull’ordinamento statale turco, sul ruolo di Erdogan e sull’opportunità per Draghi di parlare in questi termini, ma partendo da questo episodio proveremo a riflettere su un’altra questione: come si è evoluto nel tempo il concetto di “dittatore”.
Oggi, nel mondo, secondo il “Democracy Index”, un indice realizzato dall’Economist per fornire una panoramica dello stato della democrazia nel mondo, esistono decine di Paesi che vengono definiti “regimi autoritari”. Eppure, nessuno dei capi di stato e di governo di questi Paesi si definisce “dittatore”, neanche quando sono saliti al potere con golpe militari o colpi di mano.
Questa parola sembra essere stata rimossa, essere un tabù. I leader al potere anche negli stati più autoritari preferiscono usare il titolo di presidente o ritenersi depositari di un modello politico-economico alternativo alla democrazia così come la conosciamo in occidente, ma mai dittatori. Allo stesso modo, i dittatori che rappresentano il prototipo di questa figura non si sono mai ritenuti, da Adolf Hitler a Benito Mussolini, passando per Josif Stalin e Francisco Franco. Hanno sempre prediletto termini come “Duce”, “Fuhrer”, “Caudillo”, o qualcosa che li mostrasse al mondo come guida del popolo e del Paese.
Eppure, fino a meno di un secolo prima della marcia su Roma, la questione era ben diversa, e quella parola, dittatore, era usata con maggiore disinvoltura. Tra i primi provvedimenti presi nel 1860 da Giuseppe Garibaldi appena sbarcato in Sicilia alla testa dei Mille, ci fu quello di farsi nominare “dittatore” dell’isola. Qualcosa che oggi potrebbe sembrarci insolito, visto che la causa garibaldina si basava proprio sul fornire, oltre che uno stato unitario, una maggiore libertà agli italiani. Garibaldi, poco più di un decennio prima, aveva avuto una brusca rottura con Giuseppe Mazzini durante l’esperienza della Repubblica Romana, accusando lo storico esponente repubblicano di aver commesso l’errore di non aver voluto nominare un dittatore per quell’esperienza.
Vedendo tutto questo con la lente di oggi, qualcosa non quadra. L’unità d’Italia, la Repubblica Romana, esperienza quest’ultima che aveva portato a svolgere le elezioni con la più ampia platea di aventi diritto mai svolte nella penisola fino a quel momento e che aveva scritto una costituzione ritenuta alla base delle moderne carte dei Paesi democratici, cosa potevano avere a che vedere con un dittatore? Il concetto, infatti, era mutuato pienamente da quello del periodo repubblicano di Roma antica.
La legge romana aveva infatti previsto che qualora la repubblica fosse in pericolo, il senato poteva sostituire i due consoli con un dictator, che li avrebbe sostituiti in tutti i propri poteri per un massimo dei sei mesi, in modo da poter gestire il periodo di emergenza. Ciò avvenne ad esempio durante le guerre puniche o nello scontro tra populares e optimates che vide contrapposti Mario e Silla. Un dittatore pienamente inserito nel quadro giuridico, con un ruolo normato e una scadenza precisa: quantomai diverso da ciò che intendiamo adesso, ovvero una figura che sovverte con la forza l’ordinamento costituzionale e arroga su di sé ampissimi poteri, per periodi che in genere durano ben più dei sei mesi previsti nell’antica Roma. Non è un caso che la repubblica cadde proprio dopo la morte di Giulio Cesare, unico che aveva forzato l’istituto provvisorio del dictator, facendosi nominare “dittatore a vita”.
Ma c’è qualcosa in comune tra i dittatori moderni e quelli di Roma antica, e si tratta della comune radice emergenziale dei ruoli: normata e nel quadro giuridico per quelli antichi, usata spesso in maniera strumentale come metodo per ottenere un potere fuori dalla norma per quelli moderni. Forse è questo ciò che fa la differenza, senza domandarci più di tanto su cosa dittatore significhi. Il dittatore è semplicemente il capo di uno stato o di governo in cui non vi è libertà? Eppure la libertà può essere negata in tanti regimi autoritari che, pur essendo tali, non definiamo dittature. Un’ipotetica monarchia assoluta, con tutti i poteri in capo al monarca da generazioni per ragioni dinastiche, è senza dubbio un regime autoritario, ma non verrebbe chiamato dittatura. Un generale che fa cadere un governo, si appella a una situazione di totale disordine nel Paese e si pone come uomo della provvidenza e del ritorno all’ordine in quello stato…viene con più facilità definito un dittatore. Anche se verosimilmente non si farà mai chiamare come tale.
E così, per ottenere i pieni poteri Hitler ha dovuto inscenare l’incendio del Reichstag, ma potremmo riempire pagine con casi simili. Il concetto di risposta a un’emergenza, spesso, rimane anche nel pieno del regime dittatoriale. I colonnelli greci, in più occasioni giustificarono la privazione delle libertà con metafore mediche: se un arto è malato va ingessato, stiamo vedendo se può muoversi senza o dobbiamo sostituire il gesso con uno nuovo. Come a dire: leviamo la libertà per curare il Paese.
Le drammatiche esperienze del secolo scorso hanno, in ogni modo, posto fine all’uso del termine dittatore come lo usava Garibaldi. Già il suo litigio con Mazzini a riguardo parlava chiaro: quest’ultimo non aveva sicuramente stima di questo termine, tanto che nella sua critica a Marx definisce il comunismo proprio come “dittatura”. E forse anche perché la fine della Roma repubblicana avvenne proprio col prolungamento all’estremo di questo strumento, essa è uscita definitivamente nell’immaginario collettivo dallo strumento giuridico che era un tempo ed è diventata l’orrore che intendiamo adesso, tanto che anche i regimi più liberticidi evitano questa parola. La questione della gestione di un’emergenza è divenuta solo il mezzo per arrivare al fine della dittatura, la privazione della libertà. Se il dictator romano, finita l’emergenza rimetteva il potere nelle mani dei consoli, i dittatori moderni proseguono per anni nel ricoprire il proprio ruolo e nel privare i cittadini delle libertà fondamentali e nell’esercitare il potere in maniera autoritaria.
Forse è questione di lana caprina andare a capire come si sia arrivati a questo termine, come abbia acquisito questa accezione e tutto il resto. Eppure, in tempi come quelli che viviamo, in cui stiamo capendo che la libertà è un valore meno scontato di quanto pensiamo, che sappiamo che può essere sospesa o modificata in nome di un’emergenza, è importante sapere che sta a noi far funzionare la democrazia, perché è da essa che deriva la nostra libertà. E forse anche sapere cosa significhino queste parole, a qualcosa può servire.