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Restare “pazzamente attaccati alla vita” ascoltando il discorso di Liliana Segre

Immagine di copertina

La senatrice Segre ci ha fatto sentire addosso cosa significhi essere privati della dignità, ritrovarsi a mangiare come bestie qualunque cosa capiti a tiro. Perché la ferocia della guerra è nulla rispetto alla ferocia di cui è capace l'essere umano

Il discorso di Liliana Segre è un manifesto alla vita da lasciare ai posteri

“Da almeno tre anni sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace. Non mi danno pace perché da quando sono diventata nonna, trentadue anni fa, quella ragazzina che ha fatto la ‘Marcia della morte’ è un’altra persona rispetto a me: io sono la nonna di me stessa. Ed è una sensazione che non mi abbandona”.

Liliana Segre, senatrice a vita e reduce italiana dell’Olocausto, svuota le tasche della memoria e lo fa con la solita classe, efficacia e semplicità che contraddistingue la sua dialettica.

Il discorso di Liliana Segre tenutosi al parlamento europeo in occasione della Giornata della Memoria è la quintessenza dell’arte oratoria.

Lei, che “è nonna di sé stessa” e nonna di tutti noi, ieri ha aperto nuovamente il doloroso cassetto dei ricordi e ci ha catapultati proprio lì, nell’impietosa “marcia della morte”.

La “marcia della morte” era un cammino che forzatamente dovevano compiere decine di migliaia di prigionieri, principalmente ebrei ma anche prigionieri di guerra, civili ed omosessuali, dai campi di concentramento situati nella odierna Polonia, che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania.

“Eravamo solo giovani, ma sembravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna. Giorno dopo giorno, campo dopo campo, mi trovai alla fine del mese di aprile 1945. Quanto era lontano il 27 gennaio, quante compagne erano morte in quella marcia, mai soccorse perché nessuno aprì la finestra o ci buttò un pezzo di pane”.

Senza vergogna o parole mediate dal comune e ipocrita senso del pudore, la senatrice Segre ci ha fatto sentire addosso cosa significhi essere privati della dignità, ritrovarsi a mangiare come bestie qualunque cosa capiti a tiro.

Perché la ferocia della guerra è nulla rispetto alla ferocia di cui è capace l’essere umano. E Liliana Segre lo ha provato sulla sua pelle.

A soli 8 anni, Liliana, ebrea, e i suoi parenti vennero colpiti dalle leggi razziali emanate dal regime fascista. Come uno straccio vecchio e logoro, il fisico degli ebrei veniva reciso ad ogni falcata. E insieme a quei corpi ormai consunti, anche l’anima perdeva tracce di sé.

“Quando subito dopo la guerra per caso restai viva e tornai nella mia Milano con le macerie fumanti, ero una ragazza ferita, selvaggia, che non sapeva più mangiare con forchetta e coltello, ancora abituata a mangiare come le bestie. Ero criticata anche da coloro che mi volevano bene: volevano di nuovo la ragazza borghese dalla buona educazione”, racconta la senatrice dinanzi a una platea attenta, forse mai così attenta, che versa lacrime e forse ritrova – per un istante – quel po’ di emozione vera.

Quanta lucida intelligenza c’era nell’ostinata voglia di vita che Liliana Segre spremeva ad ogni passo in quella “marcia della morte” per allontanare lo spettro dell’alienazione.

Eppure, il senso più profondo delle parole di Liliana Segre giace in quello che è davvero un manifesto alla vita da lasciare ai posteri.

Così, anche nel buio più profondo della propria esistenza, la voce della senatrice accende un fiammifero che porta luce lì dove andranno piantati semi di speranza.

“La forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo trasmettere ai giovani di oggi. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque essa fosse, per cui proseguivamo una gamba davanti l’altra, buttandoci nei letamai, mangiando anche la neve che non era sporca di sangue” .

Una gamba davanti all’altra, proseguire nella vita, restarci pazzamente attaccati, volando come farfalle gialle al di là dei fili spinati. Di fronte al dolore fisico, alle mortificazioni dello spirito e dell’intelletto, c’è una forza che va oltre, che cerca la vita e la pianta a terra, passo dopo passo. Con la sola, incredibile forza dell’ostinazione, della consapevolezza di noi stessi.

Diceva Primo Levi – caro alla stessa senatrice – “in questa nostra epoca fragorosa e cartacea, piena di propaganda aperta e di suggestioni occulte, di retorica macchinale, di compromessi, di scandali e di stanchezza, la voce della verità, anziché perdersi, acquista un timbro nuovo, un risalto più nitido”.

Quella voce della verità è ancora viva, salda nel corpo di Lialiana Segre, nelle sue sfumature e nel suo temperamento. Quella voce adesso è in tutti noi, i suoi nipoti.

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