Lo strappo di Zingaretti è l’ultima occasione per il Pd per diventare un partito di sinistra
Dopo le dimissioni di Zingaretti non ci sono più le condizioni perché le due storiche culture politiche all’interno del Partito democratico possano convivere. Non è una questione di condivisione di temi, sui quali si potrebbero individuare delle affinità o unioni di intenti. Il punto è un altro: l’anima democristiana del partito e la radice comunista fondativa oggi non possono più convivere perché sono entrambe svuotate, sono ormai altro.
Le due grandi culture nell’era post-ideologica hanno perso di vista le rispettive scale valoriali, indentificandosi invece – da almeno un ventennio a questa parte – in precisi nomi e cognomi. Sono le stesse persone che tirano le fila e che di fatto hanno stabilito una “nomenclatura” di riferimento.
E questa è la radice del problema: il fatto che le correnti siano identificabili in persone fisiche genera non solo faide, rancori e risentimenti ma agevola la proliferazione di nuovi gruppi che gradualmente incrementano negli anni le fazioni, con altri nomi e con diverse sfumature in una sorta di competizione per chi è più progressista tendente al riformismo o chi è più riformista tendente al progressismo.
E via così: gruppi, istanze, correnti che, proprio perché identificabili sempre più nelle nomenclature, stabiliscono nel tempo rapporti di potere, radicalizzando gli equilibri, in una sorta di tribalismo, fino ad arrivare a quello che ieri Zingaretti non ha esitato a definire un fratricidio.
Si perdono così di vista il programma e i temi fondanti della politica. Tutto si svuota. Si sfuocano i riferimenti, le parole d’ordine, si annebbiano i valori, i principi e si minano gli assi portanti che dovrebbero tenere insieme una comunità.
D’altro canto si assumono come unici obiettivi non detti quelli del posizionamento, cioè il trovarsi nelle giuste cerchie al momento giusto. Queste dinamiche nel tempo hanno comportato danni enormi al partito, che alla lunga ha perso credibilità agli occhi degli elettori, che infatti migrano dall’astensione, al voto disincantato per i 5S o per altri partiti.
Il Pd, da quando è nato, è governato da un’egemonia culturale facente capo alla grande balena bianca. Dagli anni ’90 a seguire in quel partito si è sviluppato una sorta di senso di colpa e successiva sudditanza culturale al pensiero unico, che tendeva a glissare sugli aspetti sociali e diciamo pure “socialisti” della politica, per dare spazio alle istanze di quello che viene definito comunemente “riformismo” e che nasconde dietro di sé declinazioni non certo afferenti ai valori della sinistra. Almeno non nel nostro Paese.
Questo senso di colpa è molto simile a un peccato originale da estirpare: un atteggiamento mentale che poteva essere compreso in un periodo storico corrispondente alla caduta del Muro e quando la cultura dominante era – anche fuori dall’Italia – quella capitalista. Ma qui si è acutizzata proprio nel momento sbagliato, con lo scatenarsi della grande crisi del 2008.
La messa in discussione dei valori di riferimento, i processi che la globalizzazione ha comportato sull’organizzazione produttiva, sui processi stessi di valorizzazione e sul piano delle esperienze sociali del lavoro e delle nuove tecnologie di produzione, la diffusione di nuovi profili sociali di vulnerabilità legati al fenomeno della precarietà occupazionale e sociale non hanno trovato nella sinistra un baluardo di riferimento, una pronta controffensiva.
In Italia, in particolare, questo appuntamento con la storia è stato totalmente mancato. Sono gli anni in cui nasce la vocazione maggioritaria di Veltroni e che non può essere definita in un Partito democratico di tipo laburista stile Blair – anacronistico anch’esso perché superato dalla storia.
A parte alcune parentesi – in cui sicuramente rientra il tentativo di Zingaretti di riportare il partito alla sua vera vocazione, basata sull’idea di società giusta per garantire un futuro di libertà e uguaglianza – il partito ha assunto dalla sua fondazione derive che fanno più riferimento alla destra liberale europea che alla tradizione socialdemocratica.
L’apice di tutto ciò si è toccato durante la segreteria di Renzi – e il Jobs Act ne è l’emblema – ma molte sono state le posizioni in cui il Pd ha mostrato le sue fragilità ideologiche.
Una stagione lunga in cui si è perso il collegamento con la base, con il corpo sociale che tradizionalmente si identificava nel partito. Una stagione dominata dalla poca convinzione su temi importanti, quali l’ambientalismo, dalla messa in discussione del rapporto con il sindacato, dalla titubanza ad esprimere posizioni nette di tutela sociale verso le fasce più deboli, e nella quale i rapporti con la finanza, con le classi elitarie del paese hanno dominato.
Questo nel tempo ha logorato i pilastri fondanti. Anche alcune parentesi felici – vedi il tentativo di Piazza Grande – proprio per l’eterna sudditanza e il senso di colpa di cui sopra ma soprattutto per le guerre intestine interne si sono rivelate fallimentari.
Ricordiamo la segreteria Bersani e i motivi che l’hanno portato al fallimento – tra i quali il principale è stato sicuramente quello di appiattirsi sul Governo Monti – con il successivo avanzamento dei renziani e del renzismo che ancora attanaglia il partito.
Un partito vittima di se stesso, che non lascia spazio all’utopismo concreto, all’immaginazione capace di dare concretezza a una società diversa, di ripensare assetti sociali ed economici di tipo differente, di ipotizzare un altro mondo possibile, di convincere che un’altra idea di società è realizzabile.
Nel nome della responsabilità, quanto mai importante in questo specifico momento tragico per il mondo intero, ma senza il supporto ideologico ci si è trovati stritolati e senza alternative, se non quella di mollare.
L’ultima tragica conferma è stata l’adesione acritica e disciplinata al Governo Draghi. Non si poteva fare altrimenti? Forse. Ma ora ci troviamo così.
Il Re è nudo, ha detto qualcuno. Ci siamo svegliati con il rischio enorme che la Sinistra scompaia definitivamente dalla politica italiana. Stretta tra l’essere minoritaria all’interno del Partito democratico e l’essere totalmente velleitaria, quanto insignificante negli altri partiti, che a furia di distinguo e puritanesimo si prodigano in altrettante divisioni fino a raggiungere nei fatti la tragica parodia dei moscerini di guzzantiana memoria.
Bene fa ora Zingaretti a confermare le sue dimissioni e a chiedere una seria riflessione a tutto il partito. Egli ha sperimentato sulla sua pelle il male peggiore del partito: il trasformismo.
Non facciamo fatica a ripescare dalla memoria quanti all’interno del Partito democratico sono stati convintamente renziani nelle dichiarazioni, nei comizi, in tutte le uscite pubbliche e private. Mine vaganti al fianco di Zingaretti, senza condividerne approcci e presupposti ideologici.
Non c’è veramente limite alla decenza con la quale da un congresso all’altro si cambia bandiera sposando sul piano degli ideali tutto e il contrario di tutto. Questo Zingaretti lo sa bene perché proprio nel congresso del 2019 in cui diventò segretario, egli ottenne il 70% dei consensi: un consenso pieno, certo, un appoggio convinto e pieno di speranza per tanti, ma anche frutto di un trasformismo della classe dirigente che dal renzismo passò a Piazza Grande.
Oggi il risultato di quel congresso emerge in tutta la sua drammaticità: dopo più di un anno di pandemia e di conseguenti scelte politiche a volte forzate dalla contingenza, dopo il taglio del 30% dei parlamentari e visti i chiari di luna dei recenti sondaggi, nessuno guarderà in faccia nessuno pur di riconfermare la propria posizione nel partito e nelle istituzioni.
Per tali ragioni questa volta si dovrebbe andare fino in fondo e provare a realizzare il vero cambiamento, con coraggio. Lanciare il cuore al di là dell’ostacolo, si dice. Guardare veramente a un orizzonte nuovo, senza operazioni mediatiche, senza sperare nel potere salvifico di questo o quel movimento o appellandosi alla solita quanto fantomatica società civile.
Per ricomporre un polo progressista nel paese bisogna chiaramente dare spazio a idee progressiste, senza timore, strutturarle e convogliarle. Chiediamoci piuttosto perché l’Italia non esprime posizioni ferme e convinte su temi importanti?
Mi viene in mente Manon Aubry membro del Gue (il gruppo della Sinistra Unitaria Europea al Parlamento europeo, ndr), che l’altro giorno al Parlamento europeo ha parlato di vaccini.
Quante Aubry ci sono in Italia? Moltissime. Il fatto è che non solo non vengono valorizzate, ma spesso vengono ignorate e non ascoltate. Perché essere bravi, essere vivaci, essere convinti e determinati nella Sinistra in Italia è più un problema che una risorsa.
“La rabbia è giovane”, diceva Terence Malick, ma l’Italia non è un paese per giovani e soprattutto il Partito democratico dei giovani vuole prendere solo le facce slavate a basso tasso di polemica, solo anagraficamente “giovani”, ma non si interroga sulla rabbia, i sogni, l’audacia per riuscire a guardare oltre e fare una proposta dirompente.
Preferisce formarli con disciplina nelle vesti di giovani già nati vecchi e tenerli lì, custoditi come nelle riserve indiane ed esporli in caso di necessità. Forse questo è il momento, forse grazie a Zinga potrebbe essere arrivato il momento in cui la S che fu espulsa da quell’acronimo, oggi rimasto solo Pd, si faccia largo all’interno di quel partito riprendendosi tutto il suo spazio e l’egemonia culturale che le spetta, quale Dna fondante del partito.
Se così non dovesse essere, allora forse è il caso che quella S prenda una sua via, e cerchi un’altra strada, fuori, per ritrovare la sua identità e affermarla, salutando e non certo ringraziando.
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