Metterci a dieta è la miglior cosa che possiamo fare per noi e per l’ambiente
"Gli allevamenti intensivi producono inquinamento e deforestazione Urge una transizione ecologica. Ma il cambiamento inizia a tavola". L'intervento del presidente del WWF Italia Luciano Di Tizio
Mangiare: lo facciamo tutti ogni giorno, più volte al giorno, ma in fondo ci riflettiamo ben poco. Eppure le scelte che facciamo sul cibo possono avere un enorme impatto sia sulla nostra salute che sull’ambiente e su altri animali con i quali condividiamo il Pianeta.
È un dato di fatto che oltre l’80% della carne che consumiamo in Europa proviene da allevamenti intensivi. Il nostro Paese sta anche peggio: l’85% dei polli e più del 95% dei suini sono allevati intensivamente mentre solo pochissime vacche da latte hanno accesso al pascolo libero. Percentuali impressionanti, che rivelano impatti devastanti sull’ambiente, sugli animali e sul clima oltre che sulla salute dei consumatori. In Italia, ad esempio, si registra la maggiore resistenza agli antibiotici in Europa, proprio a causa dell’eccessivo utilizzo di medicinali veterinari negli allevamenti.
Il tema è sempre più attuale: non a caso il Wwf è tra i firmatari, insieme a una coalizione di associazioni, di un testo di legge che aspira a rendere possibile una transizione ecologica del nostro comparto zootecnico che metta al centro le piccole aziende e tuteli ambiente, salute umana, benessere animale, lavoratrici e lavoratori del settore.
Gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause del cambiamento climatico, responsabili del 16,5% delle emissioni globali di gas serra (cifra paragonabile agli effetti dell’intero settore dei trasporti, considerando treni, autovetture, camion e aerei) e del 60% delle emissioni dell’intero settore agroalimentare.
Consumano inoltre enormi risorse: fino al 10% dell’acqua dolce del Pianeta e fino al 30% delle terre non coperte dai ghiacci. Senza dimenticare anche la deforestazione provocata dall’aumento, a livello globale, della domanda di carne: il 60% delle foreste pluviali (in Amazzonia si arriva al 70%) viene abbattuto per ottenere pascoli e per coltivare grandi quantità di vegetali (soprattutto soia e cereali) destinati all’alimentazione animale.
Tutto questo causa perdita di habitat e di specie selvatiche, e contribuisce inoltre a incrementare l’effetto serra e quindi ad aggravare riscaldamento globale e crisi climatica.
Gli allevamenti intensivi rappresentano inoltre uno dei sistemi di produzione alimentare più crudeli, con animali costretti a vivere in spazi sovraffollati, con luce artificiale o al buio e senza alcuna possibilità di mettere in atto comportamenti naturali. Una scelta insostenibile, com’è evidente anche dal punto di vista dell’efficienza nutrizionale: nonostante il 77% dei terreni agricoli del pianeta sia dedicato agli allevamenti intensivi, questi generano solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine totali consumate dalla popolazione mondiale.
C’è poi il problema dell’antibiotico-resistenza che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente definito «un’emergenza sanitaria globale».
In Europa si verificano oltre diecimila decessi l’anno indirettamente causati proprio dalla resistenza agli antibiotici e un terzo di questi decessi avvengono in Italia. Un triste primato probabilmente dovuto anche all’alto numero di allevamenti presenti nella nostra nazione oltre che all’abuso che facciamo di questa tipologia di farmaci.
Gli allevamenti intensivi sono inoltre un’importante fonte di particolato atmosferico (principalmente ammoniaca proveniente dalle deiezioni degli animali), tanto che gli allevamenti rappresentano in Italia addirittura la seconda causa di inquinamento da polveri sottili.
Bisogna chiedersi come sia stato possibile arrivare a questa situazione. La risposta è semplice: la “colpa” è di noi tutti. In soli 60 anni siamo passati da un consumo medio di carne di circa 25 chili a testa a oltre 80 chilo all’anno! Ne abbiamo praticamente più che triplicato il consumo. Tradotto in termini di impatto sul clima, ogni italiano emette fino a 4,5 chili di CO2 solo con il consumo di carne, quasi il doppio di quanto previsto dalla dieta mediterranea (che genera invece 2,3 chili di CO2e pro-capite). Il 60% dell’eccesso giornaliero di emissioni è dovuto proprio al consumo di carne.
Sebbene la dieta mediterranea, com’è riconosciuto a livello planetario, sia quella che meglio soddisfa le esigenze di sostenibilità e di tutela della salute, soltanto il 13% degli italiani segue ancora questo tipo di alimentazione virtuosa, mentre la maggior parte, principalmente i giovani, ha incrementato notevolmente il consumo di proteine e grassi di origine animale a discapito dei prodotti a base vegetale (frutta, verdura, legumi, noci), assumendo così una quantità di proteine decisamente più elevata del reale fabbisogno giornaliero.
Un passaggio a diete a base prevalentemente vegetale sarebbe la vera chiave di volta per risolvere con un unico gesto i problemi ambientali e garantirci migliori condizioni di vita. Se poi si passasse a una dieta senza carne si ridurrebbero a livello globale del 76% l’uso del suolo e del 49% le emissioni di gas serra legate all’alimentazione, del 49% l’eutrofizzazione (ossia l’eccesso di nutrienti, in particolare composti dell’azoto e del fosforo, nell’acqua e nel suolo) e del 35% l’uso di acqua piovana e di falda.
Ai benefici ambientali si aggiungerebbero anche quelli sulla salute: se la dieta vegetariana fosse adottata a livello mondiale entro il 2050, porterebbe a una riduzione della mortalità globale fino al 10%, evitando circa 7 milioni di decessi l’anno. E risultati significativi in senso positivo si avrebbero anche con una sensibile diminuzione del consumo di carne: è accertato infatti che con il passaggio a diete più sane l’aspettativa di vita potrebbe aumentare anche fino a dieci anni.
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