Il Parolaio giallo (di Giampaolo Pansa)
Da ministro degli Esteri, Di Maio dovrà dimostrare di essere all’altezza del nuovo lavoro, non meno pesante di quello precedente dove i risultati sono stati parecchio scarsi. Il Bestiario di Giampalo Pansa
Qualche decina di anni fa avevo inventato un personaggio che nelle pagine dell’Espresso diretto da Claudio Rinaldi ebbe molto successo. Era il Parolaio rosso, al secolo Fausto Bertinotti, il leader di Rifondazione comunista.
L’idea mi era venuta nel leggere una biografia di quel politico di estrema sinistra che raccontava pure la sua infanzia. Anche da bambino, il futuro capo di Rifondazione non smetteva mai di chiacchierare. Tanto che il padre gli diceva: “Faustino, cerca di stare un po’ zitto, altrimenti rischi di passare per un seccatore!”. Faustino non obbedì al genitore fino a diventare il politico più verboso della sinistra italiana e forse dell’intero palazzo della politica. Oggi il Parolaio Rosso è un tranquillo pensionato che forse parla soltanto in occasione di cerimonie private. Ma al suo posto è subentrato il Parolaio Giallo, ossia Luigi Di Maio, il capo politico dei Cinque stelle.
É ancora un signore molto giovane, nato nel 1986 ad Avellino dove è cresciuto in un famiglia di destra. Il padre, un imprenditore, era stato un dirigente del Movimento sociale e poi di Avanguardia nazionale. Del giovane Luigi, invece, non si sa quasi nulla di rilevante. Si conosce soltanto che il suo curriculum scolastico fu molto irregolare e non si concluse con una laurea. Ma questo dettaglio non deve trarci in inganno.
Il giovane Di Maio non era affatto un pigro e non mancava di inventiva. Per racimolare qualche mancia, si inventò un mestiere singolare: portare il caffè alla tribuna vip dello stadio di calcio del San Paolo a Napoli. E mi piace immaginare che in quell’occasione imparò che era meglio stare seduti in prima fila bevendo un caffè caldo, piuttosto che rimanere sepolti nei ranghi di quanti non contano nulla. Ecco un ricordo che ci aiuta a capire quale sia la virtù numero uno del giovane Di Maio, oggi di appena 33 anni.
É la voglia di primeggiare, di occupare un posto molto visibile nella politica italiana. Un traguardo che Gigino è riuscito a raggiungere. Penso che ad aiutarlo sia stato quel bruscone di Beppe Grillo, l’inventore dei Cinque stelle. Lui ha sempre avuto una grande fiducia in quel ragazzo pieno di inventiva e molto ambizioso. Da precettore burbero non gli ha risparmiato le tirate d’orecchio.
Qualche giorno fa, dopo che Di Maio aveva proclamato un elenco di venti punti che riassumevano la dottrina dei Cinque stelle, Grillo lo ha richiamato, secco secco: “Basta con la moltiplicazione dei punti, non siamo alla Standa!”. Ma adesso che il governo Conte, primo o secondo che sia, è nato nessuno oserà ordinare a Gigino di non farla troppo lunga.
Il suo problema è un altro: quello di apparire all’altezza del ruolo che si è scelto. Attenzione a quanto sto per dire: niente di meno che il ministro degli Esteri. A conferma delle voci raccolte da quasi tutti i media, anche il governo giallo rosso non sarà molto diverso da quelli della Prima Repubblica.
Un tempo era la Democrazia cristiana il partito che decideva a chi affidare i dicasteri più importanti senza badare alla competenza del neo ministro. Era un gioco delle tre carte nel quale spiccavano da specialisti i dorotei di Mariano Rumor. Ho in mente un caso: quello di Toni Bisaglia, diventato ministro senza sapere quasi nulla dei problemi che avrebbe dovuto affrontare.
Ma ritorniamo a Di Maio. Da ministro degli Esteri dovrà dimostrare di essere all’altezza del nuovo lavoro, non meno pesante di quello precedente dove i risultati sono stati parecchio scarsi. Per cominciare dovrà imparare l’inglese, una lingua che non conosce, almeno a sentire le malelingue di Montecitorio. Poi dovrà farsi perdonare qualche peccato di gioventù. Per esempio, quello di aver parteggiato per i gilet gialli che hanno tormentato il presidente francese Macron. Ma soprattutto dovrà fiancheggiare il nuovo ministro dell’Interno nel tentativo di risolvere il gigantesco problema dell’immigrazione clandestina dall’Africa.
Qui i danni prodotti da Matteo Salvini, il Capitano leghista, sono terribili. La sua testardaggine nel chiudere i porti (che per il momento restano chiusi, in attesa delle decisioni del nuovo ministro dell’Interno) ha prodotto danni gravi anche per l’onore dell’Italia.
Ma il personaggio del Dittatore si sta facendo sempre più pallido. Salvini appartiene al passato. Anche la sua estate al Papeete sta diventando sempre più sfuocata. Per di più nessuno crede alla sua conversione religiosa, fitta di crocefissi e di immagini di Madonne. In più Salvini è in attesa di veder risolta la questione dei rubli che qualcuno avrebbe cercato di incassare per lui da Putin. Questo non salverà il nuovo governo Conte, ma renderà meno difficile e ridicolo il suo esordio.