Così la nuova destra vuole imporre il suo pensiero unico
È comprensibile, e in qualche misura anche legittimo, che la destra di governo invochi una «rivoluzione culturale» come un’ordalia per sostenere e diffondere i suoi valori e i suoi principi.
Per chi crede nella democrazia dell’alternanza, un rinnovamento può anche essere salutare per arricchire il dibattito pubblico nella logica del ricambio alla guida del Paese. In un sistema politico maturo, l’avvicendamento tra forze progressiste e forze conservatrici è il sale della democrazia parlamentare.
Quali sono questi valori e questi principi che la destra sociale di Giorgia Meloni intende promuovere? A giudicare dalla prima manovra economica del suo governo, emerge la volontà di tutelare gli interessi del ceto medio e medio-alto, all’insegna di un neoliberismo pragmatico e populista.
Prova ne sia la progressiva retromarcia sull’uso del contante per i piccoli pagamenti, il «perdono fiscale» per i contribuenti che non hanno potuto o voluto versare le tasse a causa della pandemia, le pensioni minime fissate a 600 euro al mese contro i mille promessi da Silvio Berlusconi in campagna elettorale.
E soprattutto, l’intenzione dichiarata di ridurre o abolire il Reddito di cittadinanza, provvedimento introdotto dai Cinque Stelle, ingaggiando così quella che è stata chiamata «la guerra ai poveri».
Ma è proprio sul piano culturale che la «rivoluzione» vagheggiata dalla destra suscita le maggiori perplessità e riserve. Laddove emerge chiaramente uno spirito di revanche, di rivalsa o di vendetta, nei confronti di una sinistra accusata di aver imposto per troppo tempo la propria egemonia.
Sono significative, a questo proposito, le parole pronunciate da Giampaolo Rossi, intellettuale di punta di Fratelli d’Italia, ex consigliere di amministrazione della Rai e ora candidato alla direzione generale dell’azienda pubblica, sul palco del tendone allestito in piazza del Popolo, a Roma, per il decennale del partito: «Va definito un nuovo racconto. L’élite che ha governato i centri di potere ha raccontato la sua di identità, deformando l’immaginario. Dobbiamo imporre i nostri valori. La vita non è nei salotti, è altrove».
Il fatto è che nella cosiddetta Seconda Repubblica il centrodestra ha governato per tre volte con Berlusconi in un arco di vent’anni, tra il 1994 e il 2006, durante i quali ha avuto tutto il tempo e i mezzi per esprimere e manifestare la propria cultura.
Tanto più che il premier-tycoon, oltre ai suoi giornali e alle sue tre reti televisive, controllava anche la tv pubblica a colpi di diktat e di editti bulgari.
Ma in quel periodo la «signora Meloni» non doveva essere ancora così autonoma se votava in Parlamento a favore di Ruby nipote di Mubarak e si schierava contro l’obbligo di fatturazione elettronica per i titolari di partita Iva.
Anche per la «rivoluzione culturale» della destra, però, vale il limite del rispetto della libertà altrui: in questo caso, libertà di pensiero, d’opinione e di critica.
L’egemonia si conquista con la forza delle idee, non s’impone con il dominio dei mezzi di comunicazione. E quando questa rivendicazione si traduce nella pretesa autoritaria di un pensiero unico dominante, a danno dell’indipendenza e del pluralismo dell’informazione, allora non è più legittima.
Né può valere come alibi la considerazione retrospettiva che anche la sinistra in passato ha fatto altrettanto: se era sbagliato allora, è sbagliato anche adesso. Qui la destra non fa che darsi la classica zappa sui piedi.
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