Delitti d’onore e matrimoni forzati: ci sono diversità che non arricchiscono
La cultura progressista e la rimozione dell’estraneità ostile dei migranti
La polarizzazione tra progressisti e conservatori in orizzonti antropologici divisi a compartimenti stagni trova nella rappresentazione sociale della questione migratoria il momento probabilmente più intenso di schizofrenia del senso comune: la sinistra narra l’alterità che approda dai Sud del mondo con la generalizzazione positiva del buon-migrante-risorsa in risposta alla generalizzazione negativa della destra del cattivo-clandestino-minaccia. Questa specializzazione politica della produzione di immaginari collettivi genera un effetto di tribalizzazione tra la comunità di senso di sinistra e quella di destra, per cui risulta tabù da entrambi le parti riconoscere ragioni parziali della controparte, pena l’esilio morale. La società che predica di abbattere confini pratica la binarizzazione assoluta del confine politico interno che ne spacca in due il senso comune: sinistra e destra non possono mescolarsi.
Così se si è di sinistra le interpretazioni in negativo dei fenomeni migratori sono interdette tout court dai repertori di senso degli appartenenti: l’imperativo categorico che comanda che la diversità è ricchezza impone che, di fronte a episodi in cui la diversità pare più creare problemi che arricchimenti, si reagisca rimuovendo questo emergere dell’altro in forma perturbante di estraneità ostile; e proiettandolo altrove, su categorie rassicuranti.
Infatti, non a caso, di fronte all’aumentare attuale nell’Occidente di episodi che riguardano matrimoni forzati e che in diversi casi arrivano a concludersi tragicamente con delitti d’onore, l’onore politico progressista che alberga nel suo inconscio collettivo metatribale si difende dallo scandalo della contaminazione, ossia dallo scandalo del migrante che non arricchisce ma porta violenza, in questi modi:
- i crimini non vanno etnicizzati, la responsabilità è individuale;
- l’Islam non c’entra;
- è un femminicidio come i nostri;
- è il patriarcato;
- sono usi tribali;
- succedeva anche da noi;
- associare questi delitti all’Islam è islamofobia.
Dato che penso che, per il bene della sinistra, la sinistra debba emanciparsi da questa primordiale pulsione alla rimozione, proverò brevemente a spiegare perché i due assiomi appena illustrati sono sia fraudolenti che pericolosi. Certi crimini vanno compresi nella loro valenza di reati culturalmente connotati o motivati, per cui va distinto che se la responsabilità è individuale (concetto già di per sé vacillante di fronte una famiglia che ammazza una figlia) la causalità è culturale. In tal senso usare il deus ex machina dell’antirazzismo coniugato nel precetto di non etnicizzare i crimini significa imporre un dispositivo di cultural blineness giuridica che opacizza elementi fondamentali per l’interpretazione di certi reati. In questi casi il “non etnicizzare i crimini” funziona come un precetto di omertà che impedisce di vedere che vi sono famiglie che obbediscono a codici d’onore che hanno una dimensione etnico-culturale e non possono essere separati del tutto da quella religiosa.
Su questo punto si innesta la questione del dogma “l’Islam non c’entra”, che definisce un’altra forma ricorrente con cui si manifestano le opposizioni complementari che sostanziano la schizofrenia sinistra/destra del senso comune occidentale: se per i conservatori la colpa è tutta dell’Islam per i progressisti l’Islam non c’entra assolutamente. O tutto o niente. Ma è colpa dell’Islam o no? è che ridurre la questione a un simile binarismo significa porla in modo scorretto. Prima di tutto andrebbe distinto il livello istituzionale, quello ufficiale della religione da quello della religione come pratica a livello del vissuto quotidiano delle persone: allora si capisce che il problema non è quello che dice l’Islam (che peraltro parla con una voce plurale, in una nebulosa senza vertici e senza centro unitario) ma quello che fa la gente in nome dell’Islam.
Per molti musulmani certe violenze non c’entrano nulla con il loro modo intendere l’Islam, per altri è il loro modo di intendere l’Islam fonte e giustificazione di una serie di violenze che si configurano in tal modo come sacrifici umani effettuati in nome di una divinità. Alcuni musulmani uccidono chi, a detta loro, non è un buon musulmano, e questo è un dato di fatto. In tal senso è inutile prendersela con le religioni in astratto: va capito che il problema è l’uso sociale delle religioni, il problema è quello che certa gente fa in nome dell’Islam, per come lo interpreta.
Similmente la proiezione della questione sulla categoria del tribale è basata sulla pretesa di separare in un’opposizione netta l’Islam dalla cultura tribale (categoria per di più altamente problematica), quando invece sia storicamente che geograficamente l’Islam veicolato come dottrina dalle autorità religiose e praticato dalla popolazione si combina con una serie di usi e costumi locali che percepisce in sintonia con i propri dettami di fede; mentre è severissimo, spietato nei confronti di tutto ciò che considera haram, proibito.
Poi, relativizzare certi crimini omologandoli ai femminicidi che avvengono in Occidente e ascrivendoli alla questione del patriarcato significa opacizzare delle differenze connotative del tutto rilevanti. È un modo per rimuovere un evento perturbante (la manifestazione della diversità culturale come alterità incompatibile, come estraneità ostile rispetto ai nostri valori) proiettandolo su una categoria rassicurante in quanto riguarda non l’altro ma anche il noi.
I femminicidi occidentali sono commessi da un io malato: una singola persona che uccide la partner per una brama di possesso legata a sentimenti di onore e prestigio che attingono a un retaggio patriarcale arcaico partecipe come spettro culturale, che si sedimenta in forma psicopatologica nel sé che si ammala proprio perché lo accoglie. È però un retaggio che è assolutamente delegittimato nel presente culturale ufficiale, eliminato da orizzonti normativi e di valore, rintracciabile al più come folklore reazionario residuale che sopravvive nei meandri più arretrati di una cultura del possesso curata da un processo sociale di smantellamento che, seppur non giunto al compimento, dura da decenni; e ha prodotto passi di emancipazione che non dovrebbero consentire certe relativizzazioni di maniera.
I delitti d’onore sono commessi da un noi obbligato: sono commissionati collettivamente da famiglie disperate che sono costrette a uccidere il membro che si ribella a una legge sacra. È per loro una soluzione spesso dolorosa ma comunque inevitabile. Sono costrette perché solo attraverso questo sacrificio umano possono salvare la famiglia dalla morte sociale che decreterebbe per essa la comunità, sprofondandola nella vergogna per aver violato un tabù, per aver profanato un codice d’onore dal quale non ci si può in nessun modo sottrarre. Si tratta di uccisioni rituali che avvengono in una dimensione culturale di operabilità nel valore da cui non ci si può allontanare, che si presenta come obbligo morale.
Insomma, i delitti d’onore rispetto al rifiuto del matrimonio combinato, così come quelli che riguardano l’apostasia o la violazione di altri tabù religiosi, riguardano un noi che emette una sentenza di morte. Un noi che appare malato solo se visto dalla nostra prospettiva culturale, dal nostro noi. Quel noi, generalmente la famiglia allargata, uccide una persona rea di coltivare un proprio io in autonomia, un’individualità in contrasto con precetti comunitari, tribali, di tipo etnico religioso in cui una componente islamista sincretizzata con usi tribali non consente una separazione netta rispetto all’Islam. Dal loro punto di vista quelle persone uccidono in nome del bene della comunità, per loro si tratta di sacrifici rituali dal valore palingenetico, con cui purificano il loro orizzonte morale da quelle che percepiscono come contaminazioni. Ci dobbiamo rendere conto dell’enormità di questo dettaglio: in questi contesti vige la pena di morte per una seria anche abbastanza ampia di reati.
Poi, i femminicidi occidentali si consumano in situazioni conflittuali che avvengono entro una cornice socio-storica di prevalente emancipazione femminile, e possono anche inerire a relazioni del tipo aggressivo-aggressivo, non solo aggressivo-remissivo; dove spesso entra (giustamente) in ballo una rivendicazione di genere basata su una concezione forte e prioritaria della soggettività della donna, dove ad essere uccisa è una volontà di essere che si delinea nella sua pienezza in una rivendicazione di parità senza compromessi. I delitti d’onore invece regolarmente avvengono in situazioni di radicale assoggettamento della donna, in un piano del tutto sbilanciato tra uomo o famiglia e donna del tipo aggressivo-remissivo. Siamo qui in cornici di senso cui è punita una volontà di essere altrimenti rispetto a degli inaggirabili oneri di sottomissione che sanciscono una disparità netta.
Intendiamoci, comunque si tratta di donne che vogliono giustamente liberarsi da odiose catene; quello che varia però è la consistenza e il peso, la diffusione e l’approvazione sociale delle catene in questione. Pertanto, diluire i delitti d’onore nella categoria del femminicidio e del patriarcato produce un’opacità del “noi non siamo meglio di loro”, un relativismo della cultural blindness che, se consola rispetto all’imperativo categorico implicito del tutelare il dogma progressista multiculturalista che comanda che “la diversità è arricchimento”, lo fa al prezzo di mascherare questi reati culturalmente motivati in una cappa di omertà politically correct. Tanto più che in questi casi l’uccisione avviene a partire da sentenze famigliari o comunitarie di colpevolezza sostenute dalle stesse donne del gruppo. Si dirà che sono vittime inconsapevoli anche loro, ma di fronte a figlie condannate a morte dalle madri al pari del resto della famiglia la categoria del patriarcato vacilla.
Il frame del “noi non siamo meglio di loro” sottende anche il benaltrismo relativizzante, il paternalismo giustificatorio che, di fronte a certi reati, invoca una postura di indeterminismo culturale sostenendo che i matrimoni combinati e le spose bambine c’erano anche da noi; e fa questo attraverso la ricerca di casi sporadici del passato che vengono surrettiziamente presentati come rappresentativi. Da noi questi casi c’erano perché sono pratiche che, in gran parte del pianeta e per gran parte della storia della nostra specie, hanno variamente fondato l’antropologia della famiglia di tanti gruppi umani, nel senso che hanno preceduto le concezioni individualistiche e secolarizzate dei rapporti di coppia che, dalla modernità, si sono diffuse in tutti gli strati sociali dell’Occidente (e che oggi rappresentano la cifra dell’emancipazione che in questa parte del mondo si è conquistata in merito alla libertà delle persone di decidere in autonomia con chi e come avere rapporti sessuali o metter su famiglia).
Da noi c’erano questi usi, presenti però in forme quali-quantitativamente non paragonabili all’entità e alle sanzioni che essi prevedono in certi luoghi del mondo oggi. Questi usi da noi non ci sono più da tempo perché, a differenza di tante società da cui migrano in Occidente tante persone, abbiamo declassato a disvalori i principi che li motivavano e abbiamo stabilito delle leggi che li vietano. Con chi viene da questi luoghi si può essere multiculturalisti con ciò che non confligge con i nostri ordinamenti ma si dovrebbe praticare un assimilazionismo intransigente rispetto a usi e costumi qui eticamente e giuridicamente inammissibili. Abbiamo il dovere di difendere certe conquiste di civiltà; per rispetto del coraggio delle persone che hanno lottato per farcele ottenere, non di offenderle facendo spallucce attraverso questi penosi “lo facevamo anche noi”.
Infine, l’accusa di islamofobia a chi critica l’Islam è un atto grave in quanto sottende e insinua in Occidente una forma di fondamentalismo islamista; essa è una modalità implicita di sostanziale introduzione della Sharia in Occidente. Il mondo è andato avanti perché le persone hanno avuto la possibilità e il coraggio di criticare culture, norme, valori, religioni. Questa possibilità è stata pagata a caro prezzo nella storia, ed è un bene prezioso da difendere. Criticare l’Islam non significa attaccare delle minoranze: l’Islam non è una minoranza, è la seconda religione del mondo e la prima per crescita, se lo eleviamo all’immunità dalle critiche in una cornice culturale che invece critica tutto il resto lo stiamo sacralizzando. Per questo l’accusa di islamofobia istituisce un piano di discriminazione morale, di superiorità in cui si definisce un ambito di senso sacro che non può essere toccato rispetto a tutti gli altri a cui si attribuisce profanabilità spesso assoluta.
Sarebbe ora di prendere atto che riconoscere che la differenza non sempre arricchisce non significa “porgere il fianco alle destre” ma togliergli argomenti di consenso in un modo più efficace di quello finora praticato dai progressisti multiculturalisti di fronte a fenomeni di violenza correlabili alle migrazioni, quello della rimozione-proiezione, che poi è omertà ideologica. Per una questione di inerzia migratoria e demografica dobbiamo prendere atto del fatto ineluttabile per cui nel futuro dell’Europa ci sarà un aumento della presenza musulmana.
Se le persone di destra auspicano irrealistiche e inquietanti cacciate in massa, a sinistra è il momento di ragionare sul bivio che ci ha illustrato Bassam Tibi: l’alternativa tra l’altrettanto inquietante opposto scenario di un’islamizzazione dell’Europa e l’europeizzazione dell’Islam. Qui si comprende che il rischio non è nell’Islam in sé ma nella Sharia, nell’islamismo, nell’Islam politico o fondamentalismo islamico, che significa la volontà e il progetto di sostituzione del diritto positivo con la legge di Dio. Ed europeizzare l’Islam vuol dire prima di tutto tutelare il diritto positivo dal rischio di islamizzazione.
In tal senso è rivelatore e preoccupante il fatto che recentemente Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (UCOII) abbia emanato una fatwa contro i matrimoni combinati: da un lato fa emergere il paradosso per cui mentre si predica che l’Islam non c’entra nulla con questi usi si riconosce indirettamente che gli stessi sono diffusi e praticati tra i musulmani italiani tanto da meritare una sanzione (peraltro significativamente non condivisa dal resto delle sigle islamiche italiane che, a dispetto del nome unificante, non si riconoscono nell’UCOII); dall’altro si afferma un principio normativo che regola il comportamento delle persone non in base al diritto positivo ma a un orizzonte di riferimento assolutamente religioso: in buona sostanza alla Sharia. Questo deve far riflettere perché in Europa si assiste da anni al diffondersi di una giurisprudenza islamica parallela a quelle nazionali, mentre i musulmani europei dovrebbero capire che in Europa devono seguire le leggi dello Stato, non brigare per sostituirle con quelle del loro Dio. Ma se non lo capiamo noi come possono capirlo loro?
Certo, va chiarito che non tutti i musulmani vogliono la Sharia; e che questa tensione è presente anche nei paesi islamici, costantemente in bilico tra desideri di modernizzazione e pulsioni tradizionaliste. Non tutto l’Islam è fondamentalista ma nell’Islam il fondamentalismo è un problema in quanto regredisce l’Islam in moderno fascismo di matrice islamista. Il fondamentalismo islamista è la destra, il conservatorismo, la forma con cui il localismo, il sovranismo si manifesta nei paesi musulmani; e la crescita del fondamentalismo nell’Islam è un problema che riguarda la Umma, l’ecumene musulmana, quindi anche l’Europa e il mondo.
Per questo sostenere un’europeizzazione dell’Islam vuol dire capire che ci sono anche delle diversità che non arricchiscono affatto, e che vanno tenute fuori dai confini del diritto. Se la sinistra non si fa carico di questa missione storica l’Occidente finirà sempre di più intrappolato tra la tentazione al ripiego verso il sovranismo, il conservatorismo, il fascismo nostrano e la minaccia di finire in quello altrui in nome di un loro Dio che vorrebbero far valere per tutti. Dato che vari sondaggi dicono che il 25-30 per cento dei musulmani in Occidente vorrebbe la Sharia e la Jihad con cui ripagare il luogo che li ha accolti, dobbiamo sperare che non siano di più di quanto le dichiarazioni statistiche attestino. Poi, soprattutto, dobbiamo sperare che la politica progressista si renda conto che questa diffusa estraneità ostile andrebbe affrontata con un dialogo meno improntato a illusori e pericolosi multiculturalismi all’acqua di rose in cerca di facili tornaconti elettorali e più alla richiesta del rispetto dei principi cardine degli ordinamenti normativo-valoriali occidentali.