Da Raggi ad Appendino, così le donne spariscono dalla prima fila della politica
La storia è vecchia ma tristemente attuale e confermata dall’ultima tornata elettorale: alle donne in Italia non vengono affidati ruoli di potere e lo si evince dal fatto che in nessun capoluogo di provincia in cui si è andati al voto nello scorso weekend è stata eletta una donna.
E sarà vero che nel misurare la parità di genere nella politica di un Paese non ci si può limitare a una questione quantitativa, ma è altrettanto evidente che qualcosa non sta funzionando se nei 20 capoluoghi di provincia al voto si sono presentate solo 29 donne su 164 candidati sindaci e nessuna sia stata eletta.
Trovare donne nelle principali posizioni di potere, soprattutto nei più importanti incarichi di governo in Italia, è ancora difficile, nonostante le cose siano leggermente migliorate nel corso degli anni. Nella politica italiana il numero di parlamentari donne ha cominciato a crescere soprattutto dal 2005 in poi (durante il terzo governo guidato da Silvio Berlusconi), con qualche momento di stallo e lieve calo. La crescita maggiore è avvenuta con il governo di Mario Monti, in carica dal novembre 2011 all’aprile 2013.
Questa crescita, però, non è sempre corrisposta a un aumento di donne con incarichi rilevanti. Va segnalato, a onor di cronaca, che il governo Draghi è quello con più donne nella storia della Repubblica italiana (tenendo conto sia di ministre che di sottosegretarie, e in cui comunque le donne sono in minoranza), e in cui Difesa, Esteri ed Economia sono comunque gestiti da uomini.
E l’ultima tornata elettorale sembra confermare un dato: l’Italia non è un Paese per donne. Pagella Politica ha analizzato nel particolare la situazione capoluogo per capoluogo e il risultato è sconfortante: sui 164 candidati sindaco totali, le donne erano 29; meno del 18 per cento. In nessun comune andato al voto la loro percentuale superava il terzo del totale dei candidati.
Roma ha, in questa circostanza, un primato positivo: è stato il comune con la percentuale più alta (quasi il 32%) di candidate, 7 su ventidue aspiranti primi cittadini. Al contrario, a Savona, Novara, Grosseto, Isernia, Benevento e Caserta, non c’è stata alcuna candidata per il posto di sindaco.
Altro fatto rilevante è che, nella quasi totalità dei casi, le donne candidate sindaco non erano sostenute dalle coalizioni con più alta probabilità di vincita – quindi dal centrodestra e dal centrosinistra – ma perlopiù da partiti e formazioni politiche generalmente sfavorite nei sondaggi. Era il caso del Movimento 5 stelle.
E proprio dai 5 Stelle arrivano gli esempi di due donne che hanno guidato due importanti città per 5 anni ma che non sono riuscite a creare una continuità: Appendino a Torino e Raggi a Roma. La prima non si è ricandidata, mentre per la seconda il risultato elettorale è stato molto deludente, con un 19,08% delle preferenze.
Ma cosa succede? È la politica che non piace alle donne o le donne che non piacciono alla politica? Probabilmente nessuna delle due: che alle donne siano preclusi i ruoli di potere in Italia è un fatto, lo dimostrano i dati sulle posizioni apicali che attualmente sono per la maggioranza ricoperti da uomini, così come i dati sugli stipendi medi delle donne e degli uomini per manager e dirigenti. Il gap salariale è abissale.
Ma le cose non vanno meglio sul versante dell’accessibilità: permangono notevoli differenze tra uomini e donne a livello di prospettive di carriera, di qualificazione professionale, di formazione imprenditoriale, di parità di retribuzione. Occorre quindi adottare ulteriori, nuovi e diversi strumenti per superare, nei fatti, effettive disuguaglianze. Permangono, anzitutto, stereotipi culturali, purtroppo ben radicati, che incidono tuttora sull’atteggiamento adottato nei confronti del lavoro femminile.
Stereotipi che riducono, senza dubbio, le potenzialità con conseguente sottoutilizzo del lavoro femminile in termini, sia quantitativi, sia qualitativi. La disuguaglianza basata sul genere è, d’altro canto, un fenomeno trasversale che, seppur in maniera diversa e con forte dipendenza da elementi di natura storica, culturale e religiosa, è riscontrabile nell’intera dimensione sociale.
È quindi fuor di dubbio che un incessante “lavoro culturale” si collochi alla base di un indispensabile cambiamento per depotenziare e combattere questo modo di pensare.
L’ultimo dato degno di nota, nella fattispecie politica, riguarda però la “predisposizione” femminile tutta nostrana al cosiddetto “passo indietro”: in più di un’occasione si è constatato come possibili candidature di donne siano poi state ritirate a favore di volti maschili più noti e favoriti, il tutto a discapito di competenze ed efficienza, specie negli ambienti di partito di grandi coalizioni. In questo senso, la strada da fare è ancora molto lunga e tortuosa.