Dall’Aula Magna di Cagliari al cimitero di Napoli: perché i crolli sono un problema antropologico
Il crollo dell’Aula Magna dell’Università di Cagliari non ha cagionato una strage solo per motivi fortuiti. È stato preceduto da quello del cimitero di Napoli, che, anche stavolta fortunatamente, per quanto lugubre, ha colpito solo dei morti.
Meno fortunate furono invece le circostanze di un altro crollo illustre, che torna in mente di fronte a questi recenti episodi di cronaca: quello del ponte Morandi di Genova. Scrivo queste righe per spiegare che si tratta di eventi che riguardano non solo il piano dell’ingegneria strutturale che evidentemente li accomuna: peccheremmo di miopia tecnocentrica se li riducessimo unicamente a ciò. Fuori dalla loro singolarità, intesi nel loro insieme, questi fatti ci indicano un problema antropologico dell’Occidente che riguarda l’abitare e il rischio, nel rapporto tra cemento e fatiscenza, come cifra – una delle tante ma fondamentale – della decadenza della civiltà.
Regolarmente simili accadimenti generano una reazione a breve termine che si sazia della ricerca di colpevoli, di inettitudine, di corruzione. Questo schema proietta il nostro bisogno di senso, di giustizia, di redenzione, sul singolo episodio e ci distrae da uno sguardo d’insieme. Ci impedisce di comprendere che qui la corruzione riguarda, prima di aspetti tecnico-politici, anche una faccenda totalmente materiale: il cemento armato. E’ una faccenda totalmente materiale dalle conseguenze totalmente sociali. Vale a dire che non si tratta di una questione che resta confinata nell’ingegneria, ma di un fatto sociale totale per l’Occidente, un fatto cioè che investirà a breve tutti gli ambiti del nostro vivere, in modo decisivo. Probabilmente, come al solito, le inchieste appureranno il contributo e il peso di tare costruttive e di manutenzione; ma le strutture crollano, iniziano a crollare, anche e soprattutto perché il cemento armato – l’invenzione con cui abbiamo costruito l’impalcatura della modernità – invecchia.
Il cemento armato si è rivelato non il materiale miracoloso ed eterno che immaginava Le Corbusier, ma una bomba a orologeria. Il materiale su cui abbiamo appoggiato le nostre esistenze, a cui abbiamo affidato la nostra sicurezza nascondeva uno scandalo, quello della vulnerabilità. Da qualche decennio il cemento armato si è scoperto vulnerabile, lo è alla radice della sua chimica, a causa della carbonatazione: con il tempo il metallo che conferisce resistenza al cemento si ossida, aumenta di volume e lo lesiona. Ha la data di scadenza, il cemento armato. Se alcune strutture in pietra dei romani ci hanno dimostrato di saper durare come il miele, pressoché all’infinito storico, mentre da poco ci siamo accorti che il nostro cemento armato è più simile al latte; scade abbastanza presto, troppo presto.
Certo, c’è cemento armato e cemento armato, come pure negli anni il cemento armato è migliorato, ma questo materiale non dura che qualche decennio, decennio più decennio meno: poco più di nulla di fronte alla storia. Domina lo spazio il cemento armato, ma ha un serio problema con il tempo. Un serio problema che con il tempo sta emergendo.
Tutto l’Occidente moderno, quello nato urbanisticamente dopo il secondo dopoguerra con la quantità (eccessiva) e la qualità (bassa) del cemento armato degli scorsi decenni, inizia a diventare, praticamente in blocco, fatiscente: una miriade di viadotti, tutti i palazzi e palazzoni delle cinte periferiche delle grandi e piccole città, tutto.
Il cemento armato è la migliore metafora del nostro rapporto con la modernità: la immaginavamo più solida, la storia ci sta mettendo pochissimo tempo a svelarcela invece assai fragile; questa verità tremenda non riusciamo ad accettarla, così la rimuoviamo, accontentandoci unicamente della ricerca episodica di capri espiatori. Questo ci impedisce di capire che il problema – quello della fatiscenza strutturale dell’Occidente – andrebbe affrontato nel suo complesso, come fatto sociale totale, appunto; come una delle (purtroppo sempre più numerose) cifre antropologiche della crisi della nostra civiltà.
Le strutture che dovevano rendere la nostra vita più agevole e sicura hanno bisogno di cura. È inutile far finta di nulla, limitandoci a scandalizzarci di fronte al singolo episodio, per rimuovere lo scandalo della fragilità del tessuto sociale su cui viviamo.
Questi crolli, nel loro somigliare sinistramente ad immagini di guerra, rivelano che siamo prossimi a un auto-bombardamento a tappeto del tessuto strutturale della modernità occidentale, una guerra grottesca cagionata da un problema intrinseco di fatiscenza, che prima – ingenuamente – non avevamo calcolato, e che ora – stupidamente – rimuoviamo, in luogo di mettere in campo politiche e azioni di prevenzione adeguate allo scenario di rischio che da tempo si annuncia attraverso simili episodi.