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La mia pandemia (di Selvaggia Lucarelli)

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

A febbraio- quel febbraio di un anno fa- ero una persona felice. Avevo iniziato a scrivere per TPI, mio figlio aveva appena conosciuto il suo primo amore, il monologo che avevo scritto con Rula aveva avuto un successo imprevisto, progettavo un viaggio in Messico per l’estate, di quelli che poi sono un serbatoio di gioia per il resto dell’anno.

Come tutti, non potevo sospettare cosa mi sarebbe arrivato addosso a fine febbraio e ancora oggi, a un anno dall’arrivo dell’epidemia da Covid-19, faccio fatica a mettere insieme i pezzi. È doloroso, perché la vita professionale e quella personale si sovrapponevano, perché quel dovere di raccontare gli altri toglieva lucidità a ciò che stava accadendo a me, perché ancora oggi, nel ripercorrere quei mesi, piango come una bambina che non scorge più i genitori tra la folla.

C’è un momento, quando arriva un’epidemia, in cui si prende coscienza di quello che sta accadendo. Un momento che non è uguale per tutti, perché un virus non aggredisce in un luogo solo e le stesse persone nel medesimo tempo. Non è un terremoto, uno tsunami. È un nemico infido ed effuso, all’inizio, per poi rivelarsi all’improvviso, gigantesco e spaventoso. Non arriva da lontano, quando appare. Era già in casa da tempo. Dov’ero, io, quando ho capito?

Me lo sono chiesta spesso, guardandomi indietro. Leggendo le cose che scrivevo, i tweet ingenui dei primi giorni dal paziente 1, scorrendo le foto sul mio telefonino. Ero stata a Codogno, a poche ore dalla chiusura della zona che diventò la prima zona rossa d’Italia.

Ricordo che ero praticamente l’unica giornalista a girare per il paese, quel pomeriggio. Incontrai solo lei, una ragazza che lavorava per la tv Svizzera, mi disse: “Ho paura, non so dov’è il virus, non so se me lo porto addosso quando salgo sul treno, è un nemico invisibile”. Mi impressionò e mi impressionò quell’unico operatore tv che sostava nel centro della piazza di Codogno, solo, senza nulla da riprendere a parte una chiesa serrata e qualche sparuto piccione che gli girava intorno.

Nessuno voleva più andare a Codogno, le redazioni se eri stato lì non ti facevano più entrare, eri ufficialmente “contaminato”. Vivevamo nella beata ingenuità del credere che il Covid fosse solo lì, perché il paziente 1 era di lì, e forse al massimo si era diffuso in qualche bar e pizzeria della zona. A Codogno incontrai qualche abitante. Erano già zombie. Spaventati, colti di sorpresa, con mascherine procurate chi in farmacia chi da amici che le avevano perché le usavano per lavori di fabbrica, i cittadini di Codogno sembravano sotto shock. “Cosa ci fa qui il virus?” era la domanda che si leggeva negli occhi di tutti. E così a Somaglia e nei comuni limitrofi, in cui vagai per un po’, comuni che poche ore dopo sarebbero stati presidiati dall’esercito.

Eppure, quel 23 febbraio, non fu, stranamente, il giorno in cui capii. Certo, mi preoccupai, ma non capii. Pensai che il virus fosse una bestia selvatica e che sarebbe bastato del filo spinato o un muro abbastanza alto per contenerla.

Il 26 febbraio ricevetti una messaggio su Fb. Una ragazza di nome Giada mi diceva che suo papà e sua mamma avevano avuto la febbre in quei giorni, che sicuramente era influenza, ma che il papà la notte era stato molto male, i numeri dell’emergenza non funzionavano, allora sua mamma con 40 di febbre si era imbottita di tachipirina e lo aveva portato all’ospedale. “C’è lo 0,001% di possibilità che sia Coronavirus, non sono paranoica, ma volevo solo farti sapere che i cittadini sono abbandonati a loro stessi, che al pronto soccorso sono tutti l’uno accanto all’altra, chi con una gamba rotta, chi con la febbre”. Io le risposi che certamente era influenza, di scrivermi se avesse avuto novità. Ci lasciammo così.

Il giorno dopo Giada mi scrisse di nuovo: “Mio papà ha il Coronavirus”. Mio-papà-ha-il-Coronavirus. Era la prima volta che sentivo quella parola fuori dai tg e dalle prime chiacchiere preoccupate con gli amici. Non più Codogno, era Cremona. La città del mio fidanzato, della sua famiglia.

Il papà di Giada aveva una polmonite bilaterale interstiziale. Intest..Interst.. Ittestiza.. non lo sapevo neppure dire, “polmonite interstiziale”. Oggi saprei riconoscerla perfino da una lastra, forse. Sua madre aveva la febbre alta, nessuno le faceva il tampone, doveva rimanere a casa. Intervistai Giada (all’epoca mi chiese di chiamarla Giovanna, utilizzando un nome di fantasia) per TPI. Intitolammo quel pezzo: “Se mia madre non avesse violato i protocolli mio padre sarebbe morto a causa del Coronavirus”. Uscì il primo marzo. Lo lesse qualcosa come un milione di persone.

Cosa stava succedendo? Mio figlio il giorno prima “si era fidanzato” per la prima volta. Era innamorato, i suoi sedici anni erano splendenti. La sera in cui scrissi quel pezzo, il 29 febbraio dell’anno più “bisesto” di sempre, io, il mio fidanzato e Leon salimmo in macchina e andammo fuori Milano, in campagna.

Ci sedemmo in un ristorante con pochi tavoli. Era uno di quei posti in cui bisogna prenotare mesi prima, c’era posto. La gente cominciava ad avere paura. “È la nostra ultima cena fuori”, ci dicemmo. Leon chattò tutto il tempo con Chiara, Lorenzo fotografò i suoi piatti, io parlai di Giada. Di quella storia.

Avevo capito. Per me il Coronavirus è diventato vero il primo marzo del 2020. Da quel momento, la mia posta fb cominciò lentamente ad affollarsi. La storia dei genitori di Giada somigliava incredibilmente a tante storie che mi stavano arrivando. Tutte dal nord, da Piacenza, da Milano, da Bergamo, da Brescia, da paesi che non avevo mai sentito nominare e andavo a cercare su google maps per circoscrivere le zone da cui mi arrivavano più segnalazioni. Basso lodigiano, Val Seriana, il piacentino erano i luoghi che tornavano più spesso.

Il 2 marzo un mio amico mise il like al post di un medico di Crema, tal Attilio Galmozzi. Era un post arrabbiato, coraggioso. Il dottor Galmozzi parlava di una situazione al collasso nell’ospedale di Crema, diceva che si stava cercando di salvare Milano trasformando in lazzaretti gli ospedali del cremonese e del lodigiano.

Gli ospedali al collasso? Il giorno dopo lo chiamai. Era un fiume in piena. Mi disse che avevano anche 80 persone contemporaneamente al pronto soccorso, mi fece scaricare una app, “Salutile, che segnalava il numero delle persone al pronto soccorso nei vari ospedali. La aprii, mi si parò davanti la realtà: Alzano Lombardo, Piacenza, Crema, Cremona e qualche ospedale dell’hinterland milanese erano affollati. Strapieni. Ma il dottor Galmozzi non mi disse solo quello. Mi disse che lui polmoniti così le aveva viste solo sui libri sulla Sars, che non era una brutta influenza. Che aveva pazienti giovani, intubati.

Scrissi l’intervista. Piangendo. Il dottore mi mandò un messaggio verso le nove di sera. “Non è che può togliere il mio nome? Rischio il posto”. Replicai che era giusto parlare, che capivo il suo timore ma che era la verità e la verità andava detta. Che se non potevo citarlo, saltava il pezzo. Galmozzi, che è uno tosto, ci ripensò: “Ma sì, metti il mio nome”.

Il giorno dopo, l’intervista al dottor Galmozzi era l’apertura del Fatto quotidiano. Non so quante telefonate di amici spaventati ricevetti quel giorno. “Ma allora è una malattia pericolosa?”. Dicevo di sì a tutti, chiamai i miei fratelli, i miei genitori. “State a casa”.

Quando vidi il video “Milano non si ferma” mi arrabbiai. Ora le informazioni c’erano, non si potevano ignorare. Gli ospedali di mezza Lombardia erano già al collasso, come potevano proprio i politici, quelli che hanno più accesso alle informazioni di qualunque cittadino, tacere la verità e non solo, spingere i cittadini ad avere comportamenti irresponsabili?

Nel frattempo la mia posta stava esplodendo. Messaggi sempre più concitati, “mia madre sta male”, “ho la tosse!”, “Non respiro bene, non mi risponde nessuno”, “Il mio medico ha il telefono sempre occupato”, “Che faccio?”. Mi svegliavo la mattina e venivo travolta dalla preoccupazione di centinaia di cittadini in ansia, che non sapevano più a chi chiedere cosa fare.

E quindi, giorno dopo giorno, ho iniziato a svegliarmi presto e a piangere, prima di accendere il telefono. Piangevo prima, perché sapevo che poi sarei rimasta anestetizzata tutto il giorno dalla lettura di quei messaggi, dall’urgenza di scrivere cosa stesse succedendo. Piangevo che ero ancora a letto, cercavo di non farmi sentire da nessuno.

Stavamo tutti bene, come potevo spiegare quel pianto? Perché dovevo spaventare il mio fidanzato, mio figlio? Ogni tanto però il mio fidanzato mi sentiva, mi consolava, non c’era bisogno di dirsi molto. Rivolevo il mondo di prima, avevo ancora la Lonely Planet del Messico sul comodino, mio figlio voleva vedere la fidanzata, io non potevo scrivere di tutti, non potevo rispondere a tutti. Era ingiusto, mi sentivo in colpa. 

Poi è arrivato il lockdown. Il giorno dopo mi manda un messaggio su whatsapp uno dei miei più cari amici: “Non sto bene, un’ambulanza mi sta portando in ospedale”. C’era allegata una foto, la foto dei suoi piedi sulla barella. Era stato caricato di corsa in ambulanza, non si era portato dietro neppure il pigiama, uno spazzolino.

Il giorno dopo andai io a portargli tutto. Ricordo una cosa, che oggi sembra incredibile: non avevo la mascherina. Entrai in un ospedale a Milano senza che la mascherina fosse obbligatoria e io non la ritenni tale. Era ancora un’idea facoltativa. E nessuno la aveva, neppure il carabiniere che vagava lì dentro.

Nei giorni successivi i messaggi che ricevevo, anche 500 al giorno, parlavano di morte. La gente cominciava a morire. Sola. Abbandonata. Cercando aiuto fino all’ultimo. I parenti e i malati mi scrivevano disperati. Chi cercava bombole di ossigeno, chi un dottore, chi un numero di telefono.

Mi raccontavano di non sapere più nulla di un papà o una sorella, di aver saputo con ore, addirittura giorni di ritardo della loro morte. Arrivavano note vocali di sconosciuti, che dipingevano scenari apocalittici. Ricevevo i messaggi su whatsapp di chi stava morendo, le foto col casco, i video di addio dei parenti dall’ospedale. Qualcuno aveva gli occhi spaventati, qualcuno era incosciente, qualcuno aveva parole d’amore per chi lasciava.

Io leggevo, non potevo smettere di leggere. E poi dovevo scegliere cosa raccontare e cosa no, a chi telefonare e a chi no, come se una storia avesse meno dignità di altre, dovevo decidere a chi rispondere anche solo con una frase, in una specie di classifica del dolore che mi straziava. Non c’era tempo per tutti, nonostante leggessi i messaggi fino all’una di notte e ricominciassi alle sette del mattino.

Ho rinunciato a scrivere una notizia, un giorno, perché avrebbe aggiunto dolore al dolore. Una brutta storia di confusione nel riconoscimento dei corpi in un ospedale (poi risolta). Mi implorò il titolare di un negozio di pompe funebri: “Lasci stare, non lo scriva, farà soffrire i parenti più di quanto non soffrano già. A che serve?”. Non serviva, aveva ragione lui.

Il mio amico stava guarendo, lui a detta dei medici che avevano trovato gli anticorpi nel suo sangue, il Covid lo aveva avuto qualche settimana prima, quei sintomi erano in realtà gli ultimi strascichi. E quindi ci siamo ricordati di quel viaggio in macchina di molte ore fatto insieme i primi di febbraio, lui che non smetteva di tossire, stava male e io “Ma che hai, tu stai male!”, e lui “Sono le sigarette”.

E poi il suo compleanno insieme, qualche giorno dopo, con lui che vedeva malissimo i bicchieri in tavola e io che gli dicevo “Ma perché ti si è abbassata così la vista?”. Aveva avuto il Covid quando ancora non si sapeva che girasse, i primi di febbraio, a Milano. Non so come fosse stato possibile, ma l’avevo scampata.

Poi è toccato ai miei amici. A Giulia, suo marito, i suoi figli. Erano stati a sciare, il bambino era caduto, lo avevano portato al pronto soccorso di Aosta il 7 marzo. “Non sono mai stata così male in vita mia, ho dolori ovunque”, mi raccontava lei. Ovviamente nessun tampone, nessuna cura.

Il 18 marzo arriva una telefonata sul telefono del mio fidanzato. Lo sento balbettare qualcosa. Capisco senza bisogno di distinguere le parole. Il Covid è arrivato in casa sua, a Cremona. Sua madre ha la febbre, sua zia non sta per niente bene, respira male. Sua nonna, 86 anni, non ha alcun sintomo e sarà l’unica delle tre (che vivono insieme) a non prendere la malattia. I misteri del Covid.

Lui mi spiega la situazione mentre è ancora al telefono e io crollo. Mio figlio è lì che passa davanti alla camera, mi vede sul bordo del letto che piango, piango in maniera rumorosa e scomposta e mi abbraccia. Mi consola. Mi chiede perché stia piangendo così. “Si stanno ammalando tutti. Non so cosa sta succedendo”, gli dico.

Il giorno dopo, il 19 marzo, il giorno della festa del papà, il papà di Giada- la mia prima intervista, la mia prima consapevolezza di ciò che stava accadendo- se ne è andato. “Sai, l’ho riconosciuto in quel servizio di Piazza Pulita nella terapia intensiva di Cremona, prono, senza vestiti, avrei voluto mettergli una copertina addosso”, mi dirà lei tanto tempo dopo. Non lo scrivo. “Il papà di Giada è morto”, ho detto al mio fidanzato, e a quel punto la morte era ovunque. Era entrata nel mio palazzo, uccidendo la mamma dell’inquilino del primo piano. Era nei bollettini quotidiani, sempre più tetri, più dolorosi. Era nell’enorme rsa davanti a casa mia, il Palazzolo, che guardavo dal terrazzo scorgendo quasi il dolore dalle luci delle finestre.

E poi le ambulanze, ma quelle le abbiamo sentite tutti e ancora oggi, quando ne sento una, sono come il cane di Pavlov: provo un profonda angoscia. I miei genitori sono soli e lontani, in una regione meno colpita, ma devono comunque uscire entrambi a fare la spesa, mia madre ha l’alzheimer, non può rimanere a casa, chissà se si ricorda che c’è il virus, se si lava le mani.

A Milano il silenzio è spaventoso. Sono comparsi animali buffi, mai visti sul mio terrazzo: la cornacchia che va a rubare i croccantini al cane della ciotola e lui che ogni volta che la vede si trasforma in un dobermann. C’è un airone grigio gigantesco che passeggia nel parco davanti casa, chi l’ha mai visto un airone lì. Chissà da dove arriva. Il marciapiede è pieno d’erba, è cresciuta ovunque, ora che non la calpesta più nessuno. Io cerco di uscire il meno possibile. Il cane non è il mio pretesto, mando mio figlio, il mio fidanzato. Mi sento uno zombie, all’aperto. In casa non è cambiato nulla, mi rassicura. Fuori niente è come prima.

I primi di aprile mi scrive un ragazzo: Giulia, una sua amica infermiera, ha il Covid e nessuno che possa farle la spesa. Abita in un comune vicino Milano, “puoi fare un appello su fb?”. Mi dico che no, non serve un appello, ci vado io a Cusano Milanino. Ho bisogno di fare qualcosa che non sia scrivere, mi sembra di essere inutile, di essere solo un ponte tra quel che accade e quel che finisce sul web e sui giornali, ma di non spostare nulla nella vita di chi il virus lo guarda in faccia.

Io e Lorenzo andiamo a fare la spesa per questa infermiera sconosciuta, parcheggiamo davanti a un supermercato, l’U2 di Cinisello. Ci fermano all’ingresso, può entrare solo uno dei due. Entra Lorenzo. È una giornata grigia come tante. Passa del tempo, Lorenzo sembra non apparire più.

Poi esce con un carrello strapieno, come se dovessimo sfamare una squadra di calcio, per un semestre. Gli dico: “Ma cosa se ne fa una ragazza sola di tutta questa roba?”. Lui ha un viso strano. “Ma che hai?”. Allora inizia a piangere in quel parcheggio a Cinisello, a piangere singhiozzando. Io non capisco cosa abbia, mi sta spaventando. Lorenzo non ha mai pianto fino a quel momento, non ha pianto quando la mamma gli ha detto che si erano ammalati in casa, perché piange qui, ora, davanti a un carrello della spesa? Mi risponde che dentro al supermercato ha sentito che gli mancava il respiro. Che ha avuto un momento di panico. Io non capisco, non gli credo, gli dico di smetterla, che mi spaventa.

Ho ascoltato tutti, per un mese, ho sofferto con gli altri e per gli altri, ho provato solidarietà per centinaia di sconosciuti e non so stare accanto al mio fidanzato. Non ne comprendo il dolore, non lo so decifrare. Litighiamo. “Siamo fortunati, stiamo bene, abbiamo il lavoro e la salute, perché fai questo? Perché crolli? Perché mi spaventi? Non ce lo possiamo permettere di crollare, cazzo!”.

Lui piange e non dice niente. Solo: “Non lo so”. Io non l’ho saputo consolare, il mio fidanzato, quel giorno in cui ha avuto il suo primo e unico cedimento. Non ha potuto contare su di me. Ancora ci penso, ancora non so che ci sia capitato quel pomeriggio, mentre stavamo andando ad aiutare una ragazza di 20 anni che stava affrontando il Covid, da sola, con coraggio e dignità.

Le abbiamo lasciato i quintali di spesa davanti al portoncino di una palazzina bassa. Quando ci siamo allontanati di fretta come guardiani che sono andati a lasciare una bistecca a un lupo, Giulia è sbucata dal portoncino, con la mascherina. Ci ha fatto “Ciao” con la mano. “Quante cose mi avete comprato?”, mi ha scritto divertita.

Poco tempo dopo, Giulia-l’infermiera-coraggiosa, l’ho rivista sulle tv e i giornali: aveva pubblicato un post su fb in cui mostrava tutte le fiale di una qualche medicina che aveva dovuto iniettarsi da sola, in casa, per problemi di coagulazione del sangue durante il suo Covid. I no-vax l’avevano presa di mira, insultata, aggredita. Era il primo inquietante segnale di ciò che sarebbe accaduto poco tempo dopo, tra manifestazioni negazioniste e avversione per il personale ospedaliero.

La zia di Lorenzo è stata male per più di un mese, con una polmonite curata da sola, isolata in un cameretta, senza mai fare il tampone. Ha fatto il sierologico tempo dopo, a fine lockdown, aveva ancora moltissimi anticorpi. La storia di tanti, la fortuna di alcuni.

Dice che non si è ancora ripresa del tutto, psicologicamente. Leon, mio figlio, a 9 giorni dal suo “fidanzamento” non ha potuto più vedere la fidanzata. Sono stati al telefono per giornate intere, io gli dicevo che si sarebbe ricordato per sempre il suo primo amore che ha coinciso con la pandemia, nato in un giorno unico, il 29 febbraio, che era l’unica cosa bella in mezzo tanto orrore.

Poi è arrivata la primavera, i messaggi nella mia posta sono cominciati a diminuire. È strano, ma io sapevo che la situazione stava migliorando perché erano cambiati il tenore e la quantità di richieste di aiuto. Avevo il mio bollettino personale, il mio termometro. Mentre accadeva tutto questo, non sono riuscita a parlare se non attraverso la scrittura, i racconti degli altri. Guardavo amici e colleghi affollare il mondo delle dirette su Instagram e fb, io non ce l’ho fatta. Mai, neppure un giorno. Lo dico oggi, senza pudore: stavo troppo male.

Ed è stato così a lungo. Anche quando sono tornati i fiori,  quando abbiamo ricominciato a passeggiare e a calpestare l’erba sul marciapiede. Perfino scrivere questo pezzo, a lungo meditato, è stato un singhiozzo continuo.

L’ho scritto oggi perché è un anno da Alzano. Da quella mancata chiusura del pronto soccorso di cui tanto si è scritto. “C’è un grosso focolaio ad Alzano Lombardo”, mi disse il dottor Galmozzi quel 3 marzo 2020, mentre lo intervistavo. “Ce li mandano tutti qui all’ospedale di Crema quelli di Alzano!”. “Dottore, come si chiama questo comune? Me lo ripete? Azzano?”. “Alzano”. “Ah, non l’ho mai sentito nominare”.

Non l’avevo mai sentito nominare. Mai avrei immaginato che poco tempo dopo sarebbe passato alla storia come uno dei più feroci focolai del mondo.

Non sapevo molte cose, quel 3 marzo. Oggi ne so moltissime e, nonostante tutto, sono grata alla vita, a questo passaggio della vita incredibile e spietato per le tante cose che mi ha insegnato. Per quello che ho imparato dal dolore degli altri. Per l’amore, la dignità, la rabbia composta, la solidarietà tra sconosciuti e per tutte le cose incredibili a cui ho assistito in quest’anno crudele.

Il dottor Attilio Galmozzi oggi è “Attilio”. Ci siamo incontrati. Si è anche vaccinato, ogni tanto mi manda le foto dei piatti pazzeschi che cucina. Giada non l’ho ancora incontrata ma sappiamo che c’è uno spritz che ci aspetta da qualche parte e non ci siamo mai perse. È una donna pazzesca, una grande manager, una che ama le donne, una femminista luminosa e gentile.

A Natale mi ha regalato una collana con una pietra nera che mi ha garantito porti fortuna, la porto quasi sempre al collo. È il mio legame con lei e, soprattutto, col mio momento di consapevolezza. Giulia l’infermiera coraggiosa sta bene, è tornata a fare il suo lavoro, la spio un po’ su fb ogni tanto, non ha la più pallida idea di cosa sia successo quel giorno, mentre facevamo la spesa per lei.

Io e Lorenzo stiamo bene, lui mi vede piangere ogni tanto mentre leggo o scrivo una cosa e non chiede niente. Non so ancora perché non sono stata capace di consolarlo, quel giorno, e mi dispiace tanto. Sarò migliore, la prossima volta. Faccio ancora fatica ad aprire la posta, penso alle persone che non ho saputo aiutare in quei giorni, quelle a cui non sono riuscita a scrivere neppure “mi dispiace”.

Leon sta ancora con Chiara. Sono felici. Tra pochi giorni festeggiano il loro primo anno insieme. Il 29 febbraio non c’è quest’anno e hanno deciso che allora sarà il primo marzo. Il giorno dopo. Perché c’è voglia di futuro, anche se nulla è ancora finito. Perché tra i morti e i vivi, c’è tutto quello che di bello è sopravvissuto.

LEGGI ANCHE: 23 febbraio, un anno dopo: così Bergamo (e la Lombardia) divenne il lazzaretto d’Europa. L’inchiesta di TPI

Tutti gli articoli di Selvaggia Lucarelli su TPI
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