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A cosa serve davvero proiettare la bandiera di un popolo aggredito? (di G. Gambino)

Immagine di copertina

Ha senso appendere o proiettare sui monumenti storici e i palazzi delle istituzioni del nostro Paese la bandiera di uno Stato in segno di solidarietà verso quel popolo?

La domanda è affascinante perché impone una riflessione di ampio respiro la cui risposta potrebbe risultare più complessa del semplice e banale gesto simbolico.

Esiste una spiegazione impulsiva nel decidere di proiettare la bandiera di un popolo e ne esiste un’altra logica, se volete cinica, dietro la scelta di non proiettare alcuna bandiera.

La prima porta con sé gli aspetti più irrazionali come reazione diretta a una vile aggressione, l’altra quelli più razionali in risposta a un attacco con migliaia di vittime.

L’occasione ricorre ogni qualvolta ci troviamo impreparati a giustificare le cause di quanto accade sotto i nostri occhi.

Sarebbe sensato poter semplicemente affermare che il sostegno, sia pure solo morale, nei confronti di un popolo aggredito valga sempre e comunque la pena di essere reso manifesto.

Esprimere solidarietà, lo abbiamo detto, serve in primo luogo a giustificare la nostra coscienza di fronte all’incapacità di trovare una spiegazione sensata davanti a un’atrocità simile. Ma serve anche a poter dire “io c’ero” nel momento in cui i fatti di quella aggressione riecheggeranno nella storia, convincendoci magari così di essere stati “dalla parte giusta”.

Di più: proiettare la bandiera di un popolo inerme barbaramente aggredito serve a rinvigorire l’idea che esista una civiltà superiore, in quanto a ideali e valori, incapace di abbassarsi alle azioni messe in atto da chi ha compiuto quella aggressione. Serve, dunque, a rinsaldare la convinzione che una comunità di nazioni, e i popoli che le costituiscono, siano del tutto estranee a bombardare militari e civili, arrivando persino a violare i principi del diritto internazionale. Serve, infine, a prendere parte in maniera netta schierandosi da subito con chi, senza apparente motivo, ha subito una perdita devastante.

Dietro le immagini proiettate sui palazzi del potere c’è altro oltre tutto questo?

Una spiegazione più razionale, non per questo meno sentita, implicherebbe una presa di posizione più consapevole che definisca in modo netto i confini di chi siamo e cosa vogliamo, magari chiedendosi quale sia stata la serie di errori commessi (dei quali siamo persino complici) nel far sì che una simile tragedia accadesse. E prevederebbe anche l’ammissione che anche noi, in passato, ci siamo resi protagonisti di vili aggressioni nei confronti di popoli inermi e indifesi.

Il tutto, possibilmente, senza dover indugiare nel goloso ma frivolo dibattito intorno al quale è necessario chiarire – più per timore che altro – che “esiste un aggredito e un aggressore”, che “non va giustificato” quel vile attentato e via dicendo.

È evidente infatti che chiunque decida di usare il terrore quale arma per rivendicare la propria esistenza vada combattuto; è altrettanto chiaro che appare ridicolo il tentativo di censurare chi per anni ha perpetrato politiche tese ad alimentare la tensione in una striscia di terra ghettizzata e lasciata al suo destino.

Spesso, dalla guerra in Ucraina fino a quella nella Terra Santa, si è parlato di equidistanza tra le parti in causa; in quest’ultimo caso, eccezion fatta per Hamas (che nulla ha a che vedere con i palestinesi), sarebbe il caso di parlare di equivicinanza alle sacrosante istanze di due popoli in conflitto da sempre.

Il futile tentativo di far cadere nell’oblio gli autori e intellettuali palestinesi, come diretta conseguenza dell’attacco di Hamas, rivela la nullità di un pensiero politico, incapace di elaborare una strategia autonoma derivante da interessi propri. Che nulla ha a che vedere con la cultura.

Ed è oggi vergognoso che Meta – su Whatsapp, Instagram e Facebook – decida di censurare (per quanto legittimamente trattandosi di una società privata) le immagini e i video dei palestinesi che provengono da Gaza. Tutto questo non ha senso. E porterà esattamente allo stesso risultato di quanto avvenuto il 7 ottobre.

Le guerre sono complesse. Si portano dietro decenni di fraintendimenti, cause e rivendicazioni senza le quali è impossibile fare i conti con la realtà, se ciò che davvero si vuole raggiungere è la stabilità.

Proiettare la bandiera di un popolo aggredito, tuttavia, non è mai servito a portare alla pace. Ma solo a dimenticare. Per poi ricominciare da capo.

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