La nostra vita dopo il Coronavirus: un mondo da ripensare
La vita dopo il Coronavirus
La vita dopo il Coronavirus? L’articolo di Selvaggia Lucarelli in merito al modello sanitario lombardo e agli errori compiuti dalla Lombardia nella gestione della più grave emergenza sanitaria della nostra storia recente induce a varie riflessioni. Non è bene occuparsi di argomenti che non si conoscono, pertanto mi terrò alla larga da ogni considerazione medica. Molto bisogna, invece, ragionare su alcuni dati forniti dalla Lucarelli a proposito dello stile di vita dei milanesi e dei lombardi in generale.
Un dato balza agli occhi: quello relativo alle famiglie composte da una sola persona. Per anni ci è stato raccontato che essere single fosse meraviglioso, una scelta di libertà, un valore aggiunto e un vantaggio per la carriera e per lo sviluppo della propria personalità. Tutto bello, salvo che poi arriva la vecchiaia, irrompe la malattia o, peggio ancora, un maledetto morbo proveniente dalla Cina che, se sei solo, ti costringe a uscire di casa per fare la spesa anche se hai la febbre e, magari, rischi di infettare gli altri di un virus contro cui, al momento, non esistono rimedi.
È di fronte a questo scenario che il mondo, finalmente, si interroga. La copertina dell’Economist di questa settimana, con il pianeta immobile e sopra un cartello con su scritto “Closed”, passerà alla storia e sarà studiata, nelle scuole di giornalismo e dagli storici, anche fra cent’anni. Questo 2020 fosco, non vissuto, amaro è, infatti, anche l’anno in cui il mondo sta cominciando, a causa di una catastrofe globale, a respirare. Meno fabbriche attive, meno inquinamento e foto dal satellite che indicano la ripresa salvifica di un’ecosistema al collasso, contro cui giustamente sono scesi in piazza per mesi milioni di giovani di ogni nazionalità.
Ma ci voleva il Coronavirus per giungere a capire che così non si poteva andare avanti? Servivano davvero i morti, le sirene spiegate delle ambulanze, le colonne di veicoli militari che portano via le bare e i bollettini di guerra diramati alle sei del pomeriggio da Borrelli per farci aprire gli occhi? Nulla sarà più come prima e, se non fossimo immersi in una mattanza che sta privando il nostro paese e non solo di risorse umane preziose, verrebbe da dire meno male.
Nulla sarà più come prima, anche se non è ancora chiaro a tutti, a quanto pare, dato che i soliti soloni e una parte del mondo industriale si oppongono alla necessaria chiusura delle fabbriche: una scelta straziante, certo, ma non possono essere gli operai a pagare il costo più elevato, anche perché il loro muoversi per andare al lavoro è un veicolo d’infezione ormai acclarato e in grado di vanificare gli immani sforzi che stiamo compiendo per debellare un virus che ha modificato non solo le nostre abitudini ma proprio il nostro modo di essere e di intendere la vita.
Vanno ripensati i rapporti umani, gli affetti, il concetto stesso di amore, l’idea di famiglia e anche una certa propaganda. Va detto chiaramente che la società esiste eccome, che gli individui da soli non vanno da nessuna parte, che le famiglie composte da una sola persona sono, in larga parte, infelici e che prendersi per mano è indispensabile in un mondo sempre più vasto e con orizzonti che ci portano la guerra in casa nell’arco di una settimana. Va detto addio alla signora Thatcher, alle sue esagerazioni, alla sua concezione devastante dell’essere umano, al suo modello di sviluppo e alla sua idea che il profitto debba sempre e comunque prevalere, persino sulla dignità della persona.
Non si può continuare a stimare papa Francesco solo per farsi belli, citando magari qualche passo della “Laudato si'” e poi infischiandosene. Non si può continuare a elogiare Greta Thunberg senza rendersi conto che la questione dei diritti è la vera questione democratica di questo secolo. Non ci si può illudere di riprendere dal punto in cui ci eravamo fermati perché non avrebbe alcun senso. Bisogna mettere in discussione tutto e tutti, a cominciare da noi stessi. Bisogna avere il coraggio di gridare, come fece qualche anno fa il grande Tony Judt, che “guasto è il mondo” e che le disuguaglianze e le ingiustizie sociali sono troppe e, ormai, inaccettabili.
Il Coronavirus, e qui sta, secondo me, lo sbaglio di molti commentatori, non costituisce solo un’emergenza sanitaria: ci dice, con ogni evidenza, molto altro. Ci dovrebbe spingere a riflettere sul fatto che, in un mondo globale, limitarsi a coltivare il proprio orticello è controproducente. Ci dovrebbe indurre a dire con forza che il privato non è meglio del pubblico perché nelle emergenze, senza il pubblico, se la cavano solamente i ricchi mentre gli altri finiscono come negli Stati Uniti, senza neanche la possibilità di sottoporsi a un tampone, che costa oltre tremila dollari, e con la seria probabilità, esposta anche da alcuni scienziati, che il morbo si trasformi in una carneficina.
Ci dovrebbe far capire che abbiamo un disperato bisogno dell’altro e che assumersi la responsabilità di stare insieme e di prendersi cura del prossimo è il primo passo verso una società più giusta, senza voler scadere in bigottismi di sorta né aprire il capitolo dell’unione fra persone dello stesso sesso (cui, peraltro, sono favorevolissimo). E per quanto concerne certi arcigni custodi dei conti pubblici, che ancora menano le danze in Europa, bisognerebbe ricordare loro ciò che disse John Maynard Keynes a commento degli accordi di pace stipulati a Versailles: “Voi state ponendo le premesse per la fine della democrazia e per una nuova guerra”. Pensare di inviare la Troika a un paese già martoriato da migliaia di morti, significa consegnare l’Italia a chi non vede l’ora di trasformarla in una piccola patria, sfasciando definitivamente l’Unione Europea.
Ci sarebbero, infine, gli inglesi, purtroppo governati da Boris Johnson, il quale ora, terrorizzato, chiude tutto ma che solo qualche giorno fa teorizzava l’immunità di gregge e dichiarava che ogni famiglia si sarebbe dovuta preparare a dire addio ai propri cari, a cominciare dagli anziani. Riecheggiava malamente il Churchill che, in piena guerra, disse, a ragione, che ogni casa nel mondo avrebbe pianto un lutto.
Se non vogliamo che qualcuno debba ripetere presto una frase del genere, sarà bene cambiare radicalmente il nostro modo di stare insieme e il nostro modo di intendere il rapporto fra produttività, mobilità, diritti, democrazia e sviluppo economico. Anche perché, come testimonia innanzitutto Johnson, ma non solo lui, di statisti oggi ce ne sono pochi ed è meglio non scoprire quanto sia esiguo il margine che separa la farsa dalla tragedia.