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Cari virologi, restate uniti invece di litigare su chi ha sperimentato prima il farmaco Tocilizumab

Immagine di copertina
Sperimentazione del farmaco Credits: Ansa

Sia Napoli che Bergamo rivendicano la sperimentazione del farmaco per il Coronavirus, ma fare la guerra adesso non serve a niente

Nel nuovo vocabolario del Coronavirus, ormai da qualche giorno, è entrato prepotentemente un nuovo termine che tutti, nonostante sia ostico da pronunciare, snocciolano come fosse la prima parola che hanno imparato a pronunciare dopo mamma e cacca: Tocilizumab. Questo nome da imperatore azteco è quello di un farmaco, tecnicamente un anticorpo monoclonale, sviluppato dalla casa farmaceutica LaRoche e finora utilizzato nel trattamento dell’artrite reumatoide. La sua applicazione nei pazienti affetti da Coronavirus è stata testata già da gennaio in Cina dove, mercoledì 4 marzo, l’utilizzo di Actemra (il nome commerciale del Tocilizumab) è stato approvato dalla National Health Commission per i pazienti con gravi danni polmonari causati dal Covid-19. Si tratta sempre di una sperimentazione destinata a esser valutata non prima del 10 maggio, ma evidentemente i risultati sono stati sufficientemente promettenti per ipotizzarne un utilizzo sistematico in presenza di determinati quadri clinici (questi sono tecnicismi e li lasciamo agli scienziati).

E sarebbero dovuti rimanere agli scienziati, in generale, se questo farmaco dal nome esotico non fosse stato usato per far volare stracci in tv, precisamente a Carta Bianca su Rai3, martedì sera. In un’atmosfera surreale, l’ormai noto infettivologo Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano ha risposto con un’antipatia incomprensibile, al netto di eventuali precedenti di cui non siamo a conoscenza, alle affermazioni di Paolo Ascierto, Direttore di Unità all’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli. Quest’ultimo, collegato via Skype con la conduttrice Bianca Berlinguer, stava spiegando i primi risultati dell’utilizzo di Tocilizumab su pazienti ricoverati, talmente convincenti da indurre l’Aifa a autorizzare una sperimentazione ufficiale proprio su 330 pazienti del Pascale. Nonostante Ascierto avesse premesso che l’intuizione era dei cinesi, si è visto attaccare dal collega di Milano che ha puntato il dito sull’ “eccessivo provincialismo” della rivendicazione, affermando poi che il farmaco in Italia veniva già usato da tempo dall’infettivologo bergamasco Marco Rizzi.

Non diamo a Napoli quello che è di Bergamo, insomma. Nella replica di Ascierto però, affidata alla pagina Facebook dell’Istituto Pascale, viene affrontato il nocciolo del problema. “Non ci risulta che qualcuno lo stesse facendo [sperimentando il Tocilizumab, NDR] in contemporanea e saperlo ci avrebbe aiutato”. In pratica, perché Bergamo non parla con Napoli? Dobbiamo ovviamente concedere il beneficio del dubbio all’affermazione di Ascierto, ma è evidente dalla cronologia dei risultati di ricerca sul web come la sperimentazione del farmaco a Napoli abbia dato i primi risultati il 7 marzo, mentre non ci sia nessun riscontro alle parole chiave ‘tocilizumab bergamo’ fino al 13, giorno in cui sul sito della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Sezione Regione Lombardia) compare il ‘Vademecum per la cura delle persone con malattia da COVI-19’ in cui, a pagina 11, si descrivono gli utilizzi e i dosaggi del Tocilizumab per varie tipologie di pazienti. Il lavoro vede tra i coordinatori redazionali Marco Rizzi, come affermato da Galli nella sua filippica televisiva.

Sulla stampa nazionale, ma pure in quella locale e specialistica, niente che collegasse Bergamo e il Tocilizumab prima del 13 marzo. Certo la pubblicazione del vademecum sarà stata preceduta da settimane di lavoro con il farmaco, ma poteva Napoli sapere prima di una pubblicazione ufficiale? Avranno ricevuto comunicazioni da colleghi? Saranno tra i tanti ad aver seguito i risultati della sperimentazione in Cina?

È possibile tutto, ma niente che possa ancora giustificare la spocchia rancorosa di Massimo Galli nel suo confronto televisivo con Ascierto. E non solo perché il disaccordo della prima ora nella comunità scientifica è quello che, più di altro, ha favorito il fiorire di ‘correnti’ popolari, simili a fedi medievali, con la confusione generale che tutti sappiamo.  Se adesso c’è un punto d’incontro, e cioè che un farmaco per l’artrite reumatoide possa contribuire a tenere sotto controllo la situazione nelle terapie intensive, è inutile trasformarlo nell’ennesimo scontro di ego, tanto più se assume quel retrogusto amaro della superiorità tecnica del nord nei confronti del sud, anche se stemperato nei mille eccipienti del contenitore televisivo.

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