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Il Coronavirus ci ha fatto scoprire che siamo ancora capaci di piangere

Immagine di copertina
Credits: Pixabay

Come la vita congelata ci ha resi tutti ipersensibili

Come si cambia: il Coronavirus ci ha fatto scoprire che siamo ancora capaci di piangere

Sabato 14 marzo, ore 12. Sono a Milano, in casa, come la maggior parte degli italiani che in queste settimane sperimentano una prigionia che non avrebbero mai pensato di affrontare nella vita. Per carità, siamo chiusi nelle nostre case integre, calde d’inverno e fresche d’estate, con i nostri comfort​, le nostre scorte di vino e di cibo, le pile di libri arretrati da leggere e una library potenzialmente infinita di serie tv, film e album musicali, con i quali distrarci dall’angoscia del reale. Ma siamo chiusi. Siamo fermi.

Alcuni di noi sono soli (in Italia una famiglia su tre è uninominale), e magari si chiedono se forse non sarebbe stato meno alienante affrontare la clausura insieme a qualcuno: un amante, un amico, un parente. Un altro essere umano.

Alcuni lo fanno in due, chiedendosi se, forse, non sarebbe stato più sopportabile farlo da soli (avete presente il boom​ di divorzi in Cina dopo la quarantena? Ecco, una cosa così).  Altri lo fanno in tre o più persone: con figli piccoli che da settimane non vanno a scuola, oppure con genitori anziani che non escono più neppure per fare la spesa. Abbiamo paura, tutti o quasi. Ce l’abbiamo per noi stessi e per i nostri cari, quelli vicini e quelli lontani, che ci chiediamo quando potremo rivedere, senza rischi, e riabbracciare, mentre tutti speriamo di esserci, di ritrovarci come sempre, di ridere e litigare come se stare insieme fosse un fatto certo.

Abbiamo paura perché

Abbiamo paura per il lavoro che si è fermato, per i pagamenti che non entreranno, per le spese che comunque ci sono (bello fare shopping dal fruttivendolo sotto casa, 5 euro per quattro pomodori e un gambo di sedano). Abbiamo paura perché, per la prima volta da quando esistiamo, le nostre libertà personali sono limitate davvero, e con esse la nostra autodeterminazione, il nostro individualismo, la promessa stessa che sta alla base della democrazia. Abbiamo paura perché sappiamo tutti che questa esperienza lascerà impressi i suoi segni nella storia privata e collettiva di ciascuno di noi.

Abbiamo paura, perché siamo chiusi in casa e lì dobbiamo stare, tele-lavoratori agili e sempre reperibili; consumatori di e-commerce, delivery app e servizi di streaming (porno incluso); utenti iper-attivi, nell’era dell’iper-comunicazione. Abbiamo paura, e ci manchiamo, e infatti abbiamo ripreso a scambiarci le telefonate e a organizzare gli aperitivi di gruppo su Skype, pur di vederci.

Al netto di qualche incoercibile scettico, siamo tutti tesi, preoccupati, diciamo pure terrorizzati. Prendiamo in considerazione la riduzione delle capacità cognitive che ha colpito una buona fetta della popolazione: tu che giustamente sei disperato all’idea di morire da solo in Lombardia, lo capisci che se porti il virus al sud succede un casino? La tua terra la ami, o la odi? I tuoi cari vuoi saperli sani oppure malati, per di più in un territorio dove spesso la Sanità è un concetto astratto, abbandonato, sgretolato come i muri degli ospedali?

Intanto, al di là del panico generale, ci sono le nostre vite, congelate mentre accadevano. Proprio ora, che ho comprato casa! Proprio ora, che sono incinta! Proprio ora, che mi devo sposare! Proprio ora, che mio padre non sta bene! Proprio ora che ho dato le dimissioni per cambiare lavoro! Proprio ora, che deve uscire il mio libro! Proprio ora. Proprio a me, anzi a noi. Da un lato ci chiediamo come usciremo da questa storia, sotto ogni punto di vista: sanitario, economico, democratico e sociale; dall’altro abbiamo tutti le nostre personali preoccupazioni e frustrazioni, i nervi a fior di pelle, l’emotività fuori controllo (solo ieri, cinque amici mi hanno scritto di aver pianto).

Coronavirus: “Così mi commuovo”

Sabato 14 marzo, ore 12.01, sento un applauso provenire dalla via in cui vivo. Apro le imposte, mi affaccio e vedo gli altri abitanti del quartiere che applaudono alle finestre, sui balconi, per lunghi minuti. Nel palazzo di fronte qualcuno ha appeso un tricolore, una cosa che in altri tempi mi avrebbe fatto pensare ai mondiali di calcio, oppure all’estrema destra, e che oggi invece mi sembra un segno di speranza, di dignità, di resistenza (tanto più all’indomani delle dichiarazioni di Boris Johnson che mi hanno fatto pensare: “Per fortuna, vivo in Italia”).

Così mi commuovo. Mi sento un po’ scema, ma pubblico un video su Instagram in cui lo dichiaro: sono commossa. Prevedibilmente, piovono messaggi che confessano che moltissimi si sono commossi. Che piangiamo davanti ai video della gente che mette musica sui balconi, alle foto dei disegni con su scritto “Andrà tutto bene”, alle immagini dei nipoti che non sappiamo quando stringeremo di nuovo. Persino dal Canada, gli italiani piangono guardando ciò che succede. Siamo distanti e, in qualche modo, più vicini che mai. È dura per tutti, ma insieme possiamo farcela. Insieme stiamo imparando una lezione su noi stessi, guardandoci allo specchio così come siamo.

Come siamo dentro: con le nostre presunzioni, illusioni e sicurezze abbattute da una fragilità inedita; e come siamo fuori: coi residui di gel sulle unghie lunghe; con le ricrescite degne di Crudelia Demon; le pelurie foltissime su varie parti del corpo; con facce deformate dall’assenza di punturine; col tono muscolare fiaccato da giorni in cui ci muoviamo soprattutto dal soggiorno al gabinetto, e dalla cucina (dove custodiamo la dispensa più piena che abbiamo mai avuto) alla camera da letto.

Quando tutto questo finirà

Quando questo casino finirà, perché prima o poi finirà, saremo cambiati sotto ogni aspetto (persino quelli che sono bravi a gestire la clausura, che si allenano ogni mattina, che non vivono in pigiama, che studiano un sacco di libri, che chiamano tantissimi amici, che imparano a farsi le mani e i piedi da sole, o la tinta home-made, o la pizza fatta in casa). Quando questo casino finirà, se non schiattiamo prima, saremo sopravvissuti alla più grossa crisi dal dopoguerra in poi. Saremo tutti più brutti, più poveri, messi alla prova dalla vita e dalla malattia, dalla solitudine e dalla cattività.

Ma, forse, saremo anche più desiderosi di incontrarci, abbracciarci forte, baciarci liberamente. Avremo più voglia degli altri, di essere insieme, di accettarci come esseri umani. Uguali e diversi. Forti ma vulnerabili. Capaci di piangere, ma anche di guarire.  Di commuoverci, e poi di ridere.

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