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Così Conte ha ribaltato la narrazione di Salvini: non più vittima ma carnefice. E per il leghista è un problema

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Il premier Giuseppe Conte e il vicepremier Matteo Salvini. Credit: Vincenzo PINTO / AFP

L'uomo forte contro tutti non sempre vince: da Renzi a Fanfani, i precedenti fanno tremare il Capitano

Così Conte ha ribaltato la narrazione di Salvini

Di nuovo l’eterno conflitto ricorrente e carsico della politica italiana: “uomo forte” contro resto del mondo. È una crisi, questa, che era stata annunciata così a lungo che quando è arrivata ha stupito gli stessi protagonisti. È una crisi strana, per certi versi persino misteriosa. Una crisi in cui Matteo Salvini arriva al traguardo, curiosamente, con il freno a mano tirato (qui le ultime notizie sulla crisi di governo).

Ieri pomeriggio la Lega ha emesso ben due comunicati di commiato dalla maggioranza, in cui però non si annunciava mai il ritiro della delegazione, e in cui non compariva nemmeno in una riga la richiesta di dimissioni di Giuseppe Conte. Persino nell’ultimo comizio di ieri notte, quello di Pescara, il leader della Lega declinava il suo gesto con il periodo ipotetico di sempre: “Se non cambierà nulla, io non rimarrò attaccato alla poltrona”. Parole anche più prudenti, a ben vedere, del famoso comizio di Sabaudia (“Qualcosa si è rotto”).

Viceversa, in questo stesso scenario, Giuseppe Conte attaccava il suo vice senza timori, con una cortese e feroce durezza politica che non gli avevano mai visto adoperare: “Il governo non era in spiaggia ma a lavorare!”. O anche: “Non spetta a lui decidere il calendario istituzionale”.

Se si vuole capire questo ribaltamento, bisogna sapere che proprio in questo momento, in cui la crisi precipita, si stanno realizzando tutti i peggiori incubi che in questi giorni avevano tormentato Salvini, prima del passo senza ritorno. Aveva detto: “Non chiederemo una sola poltrona”, ma nella settimana che ha preceduto lo strappo, tutti i giornali e tutte le fonti riferivano che si chiedeva la testa di tre o di quattro ministri. Non per una scelta folle, perché in quel momento quella era l’unica chiave di grimaldello che la Lega poteva utilizzare per far saltare il governo senza parlamentizzare lo scontro.

I precedenti che fanno tremare Salvini

Il leader del Carroccio non voleva ripetere in nessun mondo l’azzardo di Matteo Renzi del 2016 – e lo ha ripetuto in tutte le salse in tutti i colloqui con i suoi fedelissimi – ma di nuovo anche lui si ritrova solo contro tutti, con l’aura temibile e allo stesso tempo molto difficile da gestire dell’“uomo forte” sulla testa. Non voleva apparire come il killer, ma nel conflitto con Conte, ieri, si è delineata per lui la geometria più pericolosa: da un lato il leader della Lega, con il suo desiderio autocratico, e dell’altro il premier che difende il parlamento e le istituzioni.

La Lega fino ad oggi volava nei sondaggi, ma ci sono almeno quattro precedenti importanti nella storia in cui questa drammatizzazione ha fatto danno a chi l’ha invocata, malgrado i consensi della vigilia. Non solo il famoso caso di Renzi (“O me o loro, se perdo mi ritiro dalla politica”, e catalizzò con queste parole l’odio nei suoi confronti), ma anche quello della “legge truffa” del 1953, che costò la poltrona ad un signore che si chiamava Alcide De Gasperi, e il referendum sul divorzio del 1974, che mise fine alle ambizioni presidenziali di un altro signore che si chiamava Amintore Fanfani. I cavalli di razza. Era così forte l’affidamento di Fanfani su quel voto, che Giorgio Forattini, dopo la sconfitta, lo effigiò con una celebre vignetta in cui il leader democristiano veniva espulso come un tappo di sughero da una bottiglia di champagne.

Il problema di oggi è tutto qui: Salvini sapeva benissimo che gli strappi drastici nel racconto cambiano immediatamente la percezione dei leader presso il grande pubblico. Non nei fedelissimi, che ovviamente sono in visibilio, ma nel cuore dei moderati italiani, che fino a ieri sembravano schierati da una parte, e che adesso sono di nuovo alla finestra, perplessi perché i conti non tornano. Ogni scelta radicale cambia l’alchimia della base elettorale, come sa bene Jaques Chirac, che andò alle elezioni convinto di capitalizzare un consenso mai visto, e che invece spianò la strada ad un oscuro socialista di lungo corso, Lionel Jospin, l’uomo che grazie a lui è diventato il premier più amato della sinistra francese.

Salvini, lo strappo e l’attacco di Conte

La verità è che lo strappo con il “freno a mano tirato” è anche fuori dalla tradizione leghista. Nulla a che vedere con il ruggito parlamentare di Umberto Bossi che gridò alla Camera: “Onorevole Berlusconi! Il nord le toglie la fiducia! Il nord la manda a casa!”. Allora era il re barbaro che rivendicava il suo gesto di guerra. Invece questo omicidio (apparentemente) privo di schizzi di sangue, e di proclami guerreschi, è figlio delle pressioni enormi che Salvini ha subito in queste ore. Da un lato quelle dei colonnelli, esasperati per gli stop and go dei tanti tavoli di trattativa. Dall’altro quello della base leghista salviniana, euforica e gasata dall’avanzata travolgente. E infine quello dei giorgettiani: il voto in Europa sulla von der Leyen, e il tramonto della candidatura a eurocommissario di Giancarlo Giorgetti, hanno impedito a Salvini di esportare la sua contraddizione interna, con il più classico promoveatur ut admoveatur della politica italiana.

Il più forte sostenitore dello strappo è tornato a casa, dopo che aveva la valigia pronta, con il coltello fra i denti. Ma l’ultimo tassello, il colpo di grazia lo hanno dato i governatori del nord, esasperati per una trattativa (quella sulle autonomie) che – Salvini lo sapeva bene – non avrebbe mai potuto chiudersi con il successo che loro immaginavano. Ma Salvini sapeva che non poteva portare a casa insieme sia la Tav che le autonomie. E infatti è stata la mossa del cavallo di Conte, che accettava la prima per fermare le seconda, ad aprire la stessa alla precipitazione e a investire di forza il suo ruolo con una iniezione di prestigio.

Questa miscela esplosiva, più l’amo zuccherino e seduttivo dei sondaggi, hanno fatto il resto e adesso, per la prima volta, cambia la narrazione salviniana che si era rivelata vincente fino a ieri. Non più l’eroe che combatte contro gli eventi ostili, non più il riformatore democratico e moderno bloccato dai pasticcioni incapaci, non più il figlio della democrazia imbrigliato dai poteri, non più la vittima contro i suoi persecutori, ma il carnefice del governo che prende sulle sue spalle il peso della responsabilità.

Quanto dolore per quelle parole di Conte nel curioso auto-retroscena della conferenza stampa di Palazzo Chigi: “Salvini è venuto da me a dirmi che voleva capitalizzare i consensi”. Il Robin Hood della Lega, ribelle e beniamino dei diseredati e dei ceti produttivi del nord, da ieri ha una nuova immagine: un capo politico che pensa all’interesse della sua bottega e che stacca la spina senza avere la forza di esibire lo scalpo della sua vittima. Adesso nel ruolo di Davide contro Golia c’è Giuseppe Conte, l’avvocato del Popolo. E fa bene Salvini a preoccuparsi per il cambio di narrazione. Perché di narrazioni nella politica contemporanea -come sa bene Matteo Renzi – si vive e si muore.

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