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Ma a Conte chi glielo fa fare? Prima i Cinque Stelle decidano chi sono (di S. Mentana)

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Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte insieme al leader M5s e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio. Credit: Andreas SOLARO

Dopo le fanfare e gli entusiasmi iniziali, la domanda adesso nasce spontanea: ma a Giuseppe Conte chi glielo fa fare di accettare la guida del “nuovo” Movimento Cinque Stelle? L’intento della proposta era chiaro: i pentastellati – sondaggi e dati elettorali alla mano – sono da tempo protagonisti di un vistoso calo di consensi, al contrario di Conte, che lo scorso anno ha saputo conquistare una notevole popolarità e costruire una connessione sentimentale con molti italiani durante la pandemia. Scegliere l’ex premier come proprio leader significava puntare su una persona popolare anche al di fuori del proprio steccato elettorale, che avrebbe permesso di invertire la tendenza nei consensi.

Non da meno, una simile scelta avrebbe messo il Cinque Stelle in una posizione prominente nella sempre più definita alleanza con il PD: il fu segretario dem Nicola Zingaretti aveva identificato nell’avvocato del popolo la migliore figura per guidare la coalizione, e per i pentastellati portarlo ufficialmente sotto il proprio simbolo avrebbe potuto far sbilanciare verso di loro la coalizione.

Cosa potrebbe mai andare storto in un piano così perfetto? Per ridurre tutto ad una frase, possiamo dire che in politica due più due non fa quattro, o quantomeno non lo fa per forza. La popolarità costruita da Conte nel corso dell’anno passato è stata tale perché ha ricoperto un ruolo delicato in un momento di grande coesione emotiva e responsabilità di un Paese che stava affrontando una pandemia che mai aveva pensato di dover fronteggiare. Questo al netto di qualsiasi opinione sul suo operato, che non affronteremo in questa sede.

In una veste diversa da quella indossata a Palazzo Chigi, non è detto che Conte possa funzionare, o quanto meno non è automatico che ciò accada. Essere uomo di partito non significa più essere uomo di istituzioni, essere alla terza vita politica, dopo stagioni due passate a guidare due distinti governi, potrebbe fargli perdere l’aura di “Mister Smith va a Washington” che lo aveva in qualche modo fatto passare per “homo novus” della politica nostrana. E soprattutto, passare da premier che prende decisioni fondamentali sulla gestione della pandemia a leader che deve dirimere le questioni interne sul terzo mandato e sul voto online non è la stessa cosa: doversi mettere a decidere su questi argomenti rischia di trasformare Conte nel notaio di un dibattito completamente autoreferenziale. Soprattutto se teniamo conto dello stato di salute di cui gode oggi il Movimento Cinque Stelle, ammaccato dalla rottura con Rousseau e rimasto spaesato dal video di Beppe Grillo.

Può allora Conte, in questo contesto confusionario, essere l’uomo della provvidenza dei pentastellati, come avevano sperato all’inizio? Non sta a noi saperlo, ma certo non si può pretendere che solo mettendolo al vertice del movimento possa invertire la tendenza e risolvere automaticamente i suoi problemi. I Cinque Stelle prima di tutto devono decidere chi sono: i ribelli anti-casta e anti-sistema del passato o una forza che gioca sullo stesso campo delle altre? Un partito di centrosinistra o una forza autonoma? Capiscano, e decidano, prima di tutto chi sono e chi vogliono essere. Se non sanno questo, coinvolgere Conte o chiunque altro cambierà poco. Come diceva Seneca, non esistono venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare.

Leggi anche: 1. Conte conta solo se c’è Di Battista (di G. Gambino) 2. Il sonno della politica genera tecnici

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