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Psicopandemia: la paura del Coronavirus e gli effetti psicologici su tutti noi

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Credit: ANSA/Andrea Fasani

Tutti pensano al Coronavirus, ma nessuno sta ancora riflettendo sui danni psicologici della Pandemia. Ecco perché la psicologia “ai tempi del coronavirus” potrebbe assumere sfumature interessanti. Il contagio mentale è già avvenuto, tutti lo pensiamo, lo temiamo, combattiamo e sogniamo che tutto finisca in fretta. L’impatto di questo evento sulla coscienza collettiva e individuale è devastante. La “psicosi del virus” scava dentro ognuno di noi in modo diverso, ma agisce su tutti. “La peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti”(Albert Camus, La peste).

Come tutti gli eventi traumatici, significativamente stressanti che producono reazioni psicologiche e ricordi indelebili nella memoria dell’individuo, il Coronavirus ha comportato la diffusione di un marcato disagio psicologico condiviso, accompagnato da diversi effetti, ma tutti connotati da una comune matrice di base: reazione di allarme e lotta alla sopravvivenza. In ambito psicologico, il trauma è descritto come conseguenza di un evento (o di una sequenza di eventi) con caratteristiche tali da interrompere la continuità normalmente avvertita da un soggetto tra esperienza passata e momento presente.  Per essere chiamato “traumatico” l’evento deve produrre nell’individuo un’esperienza vissuta come “critica”, imprevedibile e di complessa gestione.
Il trauma, compreso quello psicologico, (dal greco τραῦμα, – ατος ossia “rottura-ferita”) è quindi un fenomeno stressante, di gravità estrema, che soverchia per la sua veemenza, l’integrità dell’individuo, nonché la sua capacità di fronteggiamento. Possiamo, quindi, definirlo  come una “frattura” che interrompe il corso naturale della nostra esistenza, sovvertendo la normale sequenza delle esperienze di vita.

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Gli psicologi, generalmente, distinguono i “piccoli traumi” detti “t” (traumi relazionali) dai grandi traumi detti “T” (eventi o esperienze che colpiscono il soggetto, o una persona a lui vicina, e che potrebbero determinarne la morte o minacciarne l’integrità fisica). La pandemia attuale, sebbene non totalmente ascrivibile al concetto di trauma psicologico o grande trauma,  come inteso classicamente dalla psicopatologia, sta producendo in tutti noi un’esperienza di minaccia, che spaventa, procura disagio e irrompe nella vita di ciascuno, compromettendone la qualità.
La popolazione mondiale sta vivendo un momento di grande allerta, di paura condivisa e di minaccia prolungata che sembra sovvertire “l’ordine naturale delle cose”, o almeno di quel tipo di ordine a cui siamo abituati.

Tutto si trasforma: si lavora da casa in modalità smart working, il contatto diventa cyber,  il Vaticano chiude le porte e persino la preghiera e le manifestazioni d’affetto diventano virtuali. D’altra parte i medici affrontano per tutti il rischio del contagio, diventano assoluti salvatori, e gli infermieri quasi superstiti. Il Covid-19, dato il suo impatto, la sua imprevedibilità e il carattere pervasivo sulla vita sociale, lavorativa e familiare, sta dunque assumendo un carattere simil traumatico. Esso sta, infatti, alterando i meccanismi tipici di regolazione emotiva, creando un disequilibrio nel funzionamento degli individui che normalmente si comportano secondo una quotidianità stabile e strutturata, e su quelli più fragili, esasperandone la loro debolezza.
In tal senso la pandemia oltre a disorganizzare tutti noi, colpisce ancor di più le persone vulnerabili in termini psichici.

La risposta  psicologica di fronte a questa minaccia, rispetto alla propria integrità e soprattutto rispetto alla limitazione della libertà che ne consegue, varia da persona a persona. D’altronde tutti gli esperti concordano sul fatto che il danno psichico del trauma dipenda non tanto dalla natura stessa dell’evento, ma dalla reazione, dalle risorse di cui ciascuno dispone e dalla percezione soggettiva di perdita esperita. All’allarme pandemico alcuni individui reagiscono con rabbia e cercano di opporsi alla situazione di costrizione; altri tollerano male la noia, la frustrazione e lo stress; i detenuti si ribellano e vogliono scappare mentre la gente comune si ritrova ingabbiata in una quotidianità asfittica. Alcuni di noi tendono a rifugiarsi in una sorta di negazione e si distaccano dall’evento; altri ancora si ancorano ai social e alle notizie che allarmano e al contempo rassicurano, in quanto portatori di un senso di appartenenza aggregante.

Chiaramente questo fenomeno avrà un impatto maggiore sulla popolazione clinica con difficoltà psicologiche. Alcune forme di nevrosi potrebbero peggiorare e la solitudine a causa della quarantena potrebbe favorire manifestazioni di ulteriore disagio, quali angoscia, fuga dalla realtà,  fenomeni di ansia, alterazione degli stati di coscienza, convinzioni ipocondriache e timori abbandonici. Viceversa, la percezione di una reale difficoltà potrebbe portare non solo le persone con un disagio psichico, ma tutti, ad arginare e mettere da parte le proprie preoccupazioni spostandosi da una prospettiva egocentrata ad una allocentrica. Per esempio, i pazienti ossessivi potrebbero disinvestire nel prevenire, neutralizzare e contrastare la minaccia e nel sentirsi essi stessi responsabili di un potenziale contagio: adesso le cose non dipendono solo da loro, e soprattutto non sono gli unici ad avere preoccupazioni di questo tipo.

Tuttavia, se da un lato, potrebbero sentirsi meno affetti da una sintomatologia psichiatrica, poiché tutti ora condividono la loro attenzione alla pulizia,  alla moralità, alla responsabilità e alla colpa di procurare un danno a se o agli altri, d’altra parte, la pandemia potrebbe confermare in loro la possibilità che il rischio della contaminazione esista, che il contagio sia dietro l’angolo, e dunque quanto “sia giusto essere vigili e scrupolosi”. I pazienti ipocondriaci o gli individui con tratti subclinici potrebbero avvertire maggiori preoccupazioni, si potrebbero iper-allarmare leggendo e sentendo parlare di nuovi contagi, iperfocalizzandosi su sensazioni o eventi che riguardano il loro corpo. L’ipocondria sembra dilatarsi e diventare un timore collettivo e condiviso. Gli individui inclini alla depressione potrebbero confermarsi il loro pessimismo ed entrare in uno stato maggiore di disperazione.

Contrariamente, gli individui con tratti paranoidi potrebbero confermarsi la loro visione dicotomica del bene e del male e tendere verso ipotesi complottiste riguardo l’origine del Coronavirus. Mentre gli ossessivi di personalità, quelli con tratti di parsimonia, potrebbero essere preoccupati rispetto ai loro risparmi e confermarsi quanto essere avari abbia dei vantaggi  e non sia assurdo preoccuparsi in vista di periodi di carestia futura. Invece i narcisisti, plausibilmente, fantasticherebbero poteri speciali, alimentando le loro credenze di immunità e grandiosità. In ultima analisi, i soggetti affetti da psicosi potrebbero disorganizzarsi ulteriormente sino e rendere maggiormente incorreggibili le loro credenze sul mondo. Eppure, in qualche modo, sembra che tutti stiamo indossando i panni dei nevrotici; tutti siamo allarmati, potenzialmente contaminati e contaminanti. La nevrosi sembra appartenere più o meno a tutti, non è più confinabile ad un gruppo ristretto di persone affette da psicopatologia. I tratti normalmente ritenuti psicopatologici diventano condivisibili, quasi normali. L’idea di essere davvero di fronte ad un pericolo reale altera e affievolisce il confine tra normalità e patologia.

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Ad esempio, le strategie di evitamento che spesso vengono messe in atto nei disturbi fobico-ansiosi, non sarebbero più solamente un riflesso patogeno della nevrosi, ma conseguenze di un dato di realtà.Paradossalmente in questo momento vengono imposte e prescritte come strategie funzionali, atte a preservarsi e allontanare il rischio di contagio. La prescrizione più diffusa si concretizza nel motto: “Io resto a casa”. Un altro esempio è costituito dai rituali di lavaggio che mettono in atto i pazienti con disturbo ossessivo compulsivo. In psicopatologia questi sono connotati come atteggiamenti ritualistici, spasmodici, anancastici, patogeni, contrariamente, attualmente, il lavaggio è diventato una normale attività e una regola di  prudenza che tutti sono chiamati ad attuare e rispettare. Inoltre, anche quelli che nella nostra disciplina definiamo bias cognitivi, cioè errori di ragionamento, che causano disagio psichico e alimentano la sofferenza (attenzione selettiva, iperfocalizzazione, generalizzazione, processi iperprudenziali di pensiero) sembrano essere in questa situazione specifica condivisi e adoperati da tutti.

Per esempio, l’attenzione selettiva per lo sporco, per le sensazioni fisiche di stanchezza o per il respiro, normalmente impiegate nei disturbi di ansia e fobia, sembrano essere diventate strategie utilizzate da tutti, poiché funzionali e caldamente suggerite. Queste osservazioni avvalorano il modo in cui intendiamo il disturbo psichico, ovvero quando taluni ragionamenti, comportamenti condivisibili e talvolta essenziali a prevenire un reale rischio, diventano rigidi e automatici e possono produrre una condotta iper allarmata e iper focalizzata su scenari catastrofici poco probabili. Forse in questa straordinaria occasione potrebbe essere utile ribadire quanto alcune strategie di ragionamento, alle volte irrazionali, nascono in qualità di euristiche funzionali alla protezione e alla sopravvivenza. La minaccia reale, evidente agli occhi di tutti, ribalta la psicologia comune, gli schemi, le etichette e le manifestazioni sintomatologiche.

Il confine tra psicopatologia e normalità diventa ancora più labile e sfumato, e allo stesso tempo il rapporto tra paziente e psicoterapeuta subisce lo stesso processo. Lo psicoterapeuta si ritrova a cancellare appuntamenti e il paziente reclama la propria possibilità di emanciparsi dai normali atteggiamenti di nevrosi e di ipercoscenziosità. Il terapeuta deve, in qualche modo, spiegare quanto questi atteggiamenti alle volte abbiano un motivo di esistere e che vi sono delle situazioni tali, come quella che stiamo vivendo, dove in effetti la prudenza, l’ipercoscenziosità, il senso del dovere e l’etica morale hanno un significato importante. Nella pratica clinica, in psicoterapia, il setting cambia forma e il focus delle sedute subisce delle variazioni.

Pz: “Dottore proprio lei che mi ha insegnato a non essere cosi prudente ora mi cancella l’appuntamento? Ma è spaventato?
T: Ma si guardi è davvero importante in questo momento essere prudenti.
Pz: Ma abbiamo impiegato cosi tanto tempo a mettere in discussione la mia prudenza e adesso lei me la conferma?
T: Ma guardi, questo è un momento particolare dove la coscienziosità appartiene a tutti. Forse dovremmo insieme riflettere su quanto alcune delle sue strategie, alle volte possano essere utili e altre volte , invece, eccessive! In fondo, il suo disturbo e in generale i disturbi psichici diventano tali quando alcune strategie che tutti condividiamo vengono messe in moto di fronte ad una minaccia non reale ma solo soggettivamente percepita. Riesce a capirmi?”

Alla luce di queste considerazioni appare, dunque, spontaneo interrogarsi su quale potrebbe essere l’impatto che avrà tale fenomeno sulle nostre coscienze, sulle nostri menti, sulle nostre emozioni e sulla sofferenza psichica. Allo stesso tempo, appare interessante riflettere sull’influenza di tale pandemia su alcune specifiche emozioni come la tristezza, la colpa e il disgusto tipiche di alcuni quadri psicopatologici. In particolare ci si chiede in che misura essa, potrebbe influire sulla patologia mentale in genere. Potrebbe generare un peggioramento? La quarantena potrebbe essere un fenomeno di scompenso? Potrebbe davvero rappresentare un fattore di rischio psicopatologico?
Una cosa è certa, in questo momento ci troviamo, noi tutti, a vivere molte emozioni negative, in particolare ansia e paura legate al senso di minaccia pandemico. Sperimentiamo sentimenti di tristezza per aver perso in qualche modo il fluire della quotidianità e un senso di costrizione legato alla limitazione della propria libertà. Inoltre, emerge in modo significativo il tema solitudine; più che mai assaporiamo questo stato.

Essendo noi tutti abituati a stare perennemente iperconnessi, impegnati e ad avere delle abitudini comportamentali quotidiane e frenetiche, spesso non lasciamo spazio alla riflessione e contrastiamo o ignoriamo gli stati emotivi negativi. Adesso, siamo costretti a sentire la solitudine e la tristezza: una sorta di esperienza di perdita di quel quotidiano di cui spesso ci lamentiamo, e che alle volte quasi, svalutiamo. Ci troviamo ad esperire la noia, un “mostro” contemporaneo che può divorare e che cerchiamo di allontanare. Tutti gli scenari più temuti, vale a dire la solitudine, la paura del contagio, di perdere i propri cari, di essere irresponsabili, di rimanere soli, di essere testimoni di una catastrofe diventano pressoché plausibili e quasi reali per tutti. Abituarsi a queste emozioni reclama la necessita di trovare delle strategie funzionali di gestione e tolleranza ad alcune emozioni poco esperite nel funzionamento tipico della nostra quotidianità. Tuttavia, questa vicenda sta mostrando anche come i fattori di protezione e di resilienza siano quelli legati al contenimento sociale e al sentimento di aggregazione, che vanno sviluppandosi e che forse, noi alle volte trascuriamo.

Questo evento, di portata storica, assume in qualche senso un carattere traumatico: impatta sulla coscienza degli individui, elicita spavento e disorganizzazione mentale. Ad ogni modo la condivisione di un malessere generale, che per l’appunto allerta tutti, sta ricomponendo la coscienza collettiva, quel senso di appartenenza che contiene e rassicura. La Pandemia sembra quindi avere in sé due aspetti contrastanti: da un lato produce disagio psichico e disgrega, dall’altro ricompone e aggrega. Il contagio potrebbe andare oltre quello virale. Nessuno è immune: ci confrontiamo tutti con uno stato di allarme e vigilanza. Tutti siamo colpiti: la nevrosi al tempo del Coronavirus vive intorno a questo principio. Stiamo parlando (anche) di te.

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