Il fallimento di una classe dirigente
Il fallimento di una classe dirigente
L’ennesimo desolante spettacolo che la politica italiana ha mandato in scena nelle ultime settimane lascia poca fiducia sul fatto che il Paese possa riuscire a rialzarsi presto dalle tremende difficoltà che lo attanagliano.
Tra alcune settimane saremo chiamati a presentare alla Commissione europea il nostro piano per il Next Generation Eu e – qualunque epilogo avrà la crisi di governo – risulta difficile pensare che i nostri emissari arriveranno a Bruxelles con un programma organico e una lista di progetti ben dettagliati.
Dopo gli applausi ricevuti per il modo in cui aveva gestito la prima ondata del Covid, il Governo si è aggrovigliato su se stesso, colpevole di schizofrenici cambi di rotta di fronte alla seconda ondata e di ostinato immobilismo al cospetto dell’epocale occasione del Recovery Plan.
Partiti senza identità
La maggioranza giallo-rosso-viola ha ampiamente palesato i limiti di un’alleanza estemporanea, fin qui incapace di offrire al Paese una chiara visione di futuro.
Anche prese una per una, le forze della maggioranza rivelano la propria indefinitezza. Il Pd è, fin dalla sua nascita, un instabile agglomerato di fazioni perennemente in lotta fra loro. Il Movimento 5 Stelle, conquistate le stanze del potere, ha presto smarrito il suo spirito ribelle (e con esso metà dei propri elettori) per diventare un corpo amorfo, svuotato di contenuti e lacerato al proprio interno. Italia Viva è sostanzialmente un insieme di dirigenti fedeli a Matteo Renzi quasi privo di corpo elettorale, mentre Liberi e Uguali è praticamente una costola dell’ala zingarettiana del Pd.
Nemmeno la coalizione di centrodestra, dal canto suo, ha ancora chiarito la sua reale identità (popolare o sovranista?) e ondeggia tra slogan superficiali e proclami spesso anacronistici. La Lega ha tre anime: quella demagogica di Salvini, quella moderata di Giorgetti e quella pragmatica di Zaia. Fratelli d’Italia è il partito di Giorgia Meloni: ha un programma certamente chiaro, ma gli manca una squadra di dirigenti e amministratori. Forza Italia sopravvive, malgrado il declino del suo padrone, cercando di preservare la sua diversità europeista nella coalizione con gli alleati sovranisti.
La crisi dei corpi intermedi
I partiti da decenni ormai hanno smesso di svolgere la loro funzione nella società. Non sono più associazioni di cittadini riuniti da idee comuni che concorrono a indirizzare le decisioni della Pubblica Amministrazione. Non hanno più, come diceva Norberto Bobbio, “un piede nella società civile e uno nelle istituzioni”. Sono diventati “partiti liquidi”: in alcuni casi comitati elettorali del loro leader (e grandi statisti in giro non se ne vedono), in altri organizzazioni di correnti che si spartiscono i posti del potere.
La partita è tutta nel Palazzo, mentre gli elettori (di iscritti non se ne parla neanche più) restano fuori e non contano nulla. Almeno fino al momento del voto, quando c’è da convincerli con promesse roboanti o agitando lo spauracchio del nemico brutto e cattivo a cui va ad ogni costo impedita la vittoria.
La disintermediazione è un processo che affonda le radici negli anni Novanta, subito dopo la caduta del Muro di Berlino e lo scandalo di Tangentopoli, e che si è accompagnata all’abbandono dei grandi ideali che avevano retto fino ad allora la politica del Novecento.
Il risultato è che da una quarantina d’anni le forze politiche camminano senza punti di riferimento: non sono ancorate a una base di iscritti, non hanno una carta dei valori. La demolizione dei vecchi partiti di massa ha inoltre compromesso i processi di formazione e selezione della classe dirigente, un tempo affidati alle scuole di partito.
Le colpe dei sindacati e di Confindustria
Ma l’inadeguatezza della classe dirigente non è un problema solo della politica. Analogo discorso si potrebbe fare per i sindacati, che da tempo hanno abbandonato i posti di lavoro per chiudersi nei loro interessi corporativi.
Non a caso il numero dei tesserati è crollato e la maggioranza di quelli rimasti sono pensionati, ossia ex lavoratori. Cgil, Cisl e Uil oggi sono preoccupati in primis di previdenza sociale e pubblico impiego, mentre i lavoratori precari e i para-subordinati sono stati abbandonati a loro stessi.
Confindustria ha dimostrato la sua irresponsabilità durante la pandemia: anziché contribuire a trovare soluzioni in un quadro di grave emergenza, ha preferito opporsi rigidamente alle chiusure, invocare meno tasse e premere per lo stop al blocco dei licenziamenti.
Non diciamo nulla di nuovo se osserviamo che la crisi dei corpi intermedi è tra i fattori all’origine del progressivo distacco fra istituzioni e società. Eppure, nonostante il problema sia conclamato, troppo poco si discute di come porvi rimedio.
La Pubblica Amministrazione
“Servono bravi amministratori, persone che sappiano far accadere le cose”, dice spesso Carlo Calenda, leader di Azione. Non basta tuttavia un buon ministro a far funzionare al meglio gli uffici di un ministero. Un altro problema atavico del nostro Paese è infatti la lentezza, l’impreparazione – e in certi casi addirittura la resistenza al cambiamento – dell’apparato burocratico.
Se stessimo parlando di Formula 1, si potrebbe dire che – salvo qualche eccezione – non ci mancano solo i piloti (i ministri) ma anche gli ingegneri (i dirigenti) e i meccanici (gli impiegati). Questo certo non significa che siamo un Paese di incapaci, ma forse anche nella Pubblica Amministrazione c’è un problema di selezione della classe dirigente.
Spunti per uscire dalla crisi
E così, nel momento più difficile dal Secondo dopoguerra, l’Italia si ritrova con partiti che assomigliano a compagnie di ventura, con sindacati e industriali che coltivano i propri interessi corporativi e senza una solida una spina dorsale negli uffici dell’Amministrazione pubblica. E allora, che fare? Rassegnarci al peggio?
Una strada da imboccare certamente è quella di istituire anche in Italia una Scuola nazionale di amministrazione, sul modello dell’Ena (Ecole nationale d’administration) francese: da lì potrebbero scaturire le energie e le competenze di cui il nostro apparato burocratico ha disperatamente bisogno. Una classe di burocrati all’altezza della situazione sarebbe già un ottimo punto di partenza.
Una luce di speranza arriva poi dai territori, dove associazioni di cittadini e comitati di quartiere portano avanti – nonostante mille difficoltà – progetti concreti a cui i partiti e le istituzioni dovrebbero imparare a dare più ascolto (un esempio? Le 15 proposte per la giustizia sociale elaborate dal Forum Disuguaglianze e Diversità).
La politica deve cambiare radicalmente modello e assumere un approccio bottom-up: tornare a occuparsi dei problemi quotidiani delle persone (a proposito, che ne è stato della promessa del segretario di Zingaretti di spostare la sede del Pd in una periferia di Roma?) e ricucire lo strappo con l’elettorato.
Orfane delle ideologie, le forze politiche devono ritrovare nella società di oggi dei punti di riferimento che possano orientare i loro programmi. È un processo che richiede tempo, ma prima o poi bisognerà avviarlo.
Siamo un Paese atrofizzato e senza idee. Possiamo cercare parlamentari “responsabili”, affidarci a fuoriclasse come Mario Draghi, cambiare la legge elettorale. Ma finché non ci sarà un ripensamento strutturale dei partiti e di selezione della classe dirigente, difficilmente l’Italia potrà svoltare davvero.
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