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Cento anni fa nasceva Enrico Berlinguer: vi racconto chi era, fra aneddoti, battaglie politiche e il revisionismo di alcuni suoi successori

Immagine di copertina
credit: ansa foto

Da bambino giocava alla Rivoluzione francese nei vicoli di Sassari, e ai suoi compagni di giochi gridava: «Cittadino!». Ad Enzo Biagi, nel 1972, per sintetizzare la stagione più difficile della sua vita, raccontò: «Da ragazzo c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo tutto. La religione, lo Stato, le frasi fatte, le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico». Nel 1978, quel ragazzo diventa l’uomo del compromesso storico, e dell’incontro con la Dc di Moro. Nel 1980 abbandona la maggioranza di governo. Nel 1984 muore su di un palco, mentre combatte contro gli armamenti e contro il taglio della scala mobile. Ci sono, nella storia, vite come questa, che non si riescono a chiudere in un semplice giro di compasso. Ed è per questo, che nel giorno del suo centenario, la memoria di Enrico Berlinguer oggi sembra più attuale di mezzo secolo fa. Questo perché la sua figura non è una reliquia inerte, un’icona da adorare come un ecumenico santino, una figurina indolore buona per coprire una storia pacificata e quieta. Casomai il contrario. In tempi di smarrimento, quando si azzerano le rotte e gli atlanti (i tempi che viviamo), la memoria di Berlinguer diventa un’eredità preziosa e scomoda per la politica, ma anche l’ultimo presidio dell’identità della sinistra in Italia.

In queste ore, mentre Sergio Mattarella vola a Sassari per ricordarlo, mentre tutti provano a incastrarlo in qualche tabernacolo, non fatevi ingannare da chi versa lacrime retoriche per annacquare la potenza del suo messaggio. L’11 giugno del 1984, dopo essere stato colpito da un ictus sul palco di Padova, Berlinguer moriva al termine di una straziante agonia (Riccardo Barenghi, giovanissimo inviato di quelle ore, la ricorda con grande asciuttezza a pagina 42). Enrico torna da Padova a Roma con l’aereo presidenziale di Sandro Pertini, avvolto nella bandiera rossa e in quella tricolore, il presidente chinato per baciare il drappo, in una rappresentazione quasi scultorea (sia dell’amore paterno che del senso dello Stato). Il giorno del funerale gli enormi parcheggi della spettrale periferia romana si riempirono fin dalle prime ore del mattino, di treni di gomma e di carrozziere d’acciaio arroventate. Un mare di pullman, da tutta Italia, tutti i pullman d’Italia, tutti quelli disponibili quel giorno, nel giugno del 1984, furono affittati per portare militanti di ogni luogo e contrada a piazza San Giovanni: un milione di persone, il più grande funerale della storia d’Italia. Un milione di famiglie comuniste, in un partito che contava un milione e 700mila tessere. Un Paese nel Paese.

«Qualcuno era comunista», canterà dieci anni dopo Giorgio Gaber in una canzone che ha sintetizzato un’epoca, «perché Andreotti/ non era una brava persona/ e perché Berlinguer era/ una brava persona» (per chi non l’ha mai sentita live, qui partono sempre un brusio e un applauso, come un colpo di frusta). Pullman per le marce della pace, ferie per lavorare alle feste dell’Unità, bimbi con le bandiere in piazza sulle spalle dei genitori. Ad Assisi, sotto una pioggia torrenziale, nel 1981, il corteo è così lungo che molti arrivano in cima alla rocca, a piedi, zuppi, quando Berlinguer è già a metà del suo discorso. Sui pullman, al ritorno, si parla delle parole ascoltate: «Finiremo in sezione dopo aver letto l’integrale su L’Unità». Fantastico.

Berlinguer morì nel 1984, alla fine di quel comizio pazzesco di Padova, in una serata così folle che se non fosse stata filmata dai veneti sembrerebbe inventata. Era partito da Roma per Genova, approdato in Veneto già stanco. Moriva, sceso da quel palco, dopo essersi sentito male, ma volendo testardamente finire il comizio, con la piazza di Padova che grida: «Enrico! Enrico!» Implorandolo di fermarsi. Muore dicendo «I comunisti si sono battuti per dare la libertà anche a chi non era comunista», come può verificare chi abbia il fegato di rivedersi l’integrale: una passione in diretta. Ho rivisto il film dei “registi comunisti” ieri: un ologramma di un altro secolo. Il quadro balla e a tratti salta, l’audio è pessimo, luci e qualità dell’immagine rendono il ritratto cupo, drammatico, ma anche poetico, carico di afflato ideale. Il taglio di luce degli occhi di Enrico, esaltato da questa fotografia involontaria: un ritratto iperrealista nella notte della Repubblica.

In questi anni che ci separano dalla morte di Berlinguer in tanti hanno provato a disinnescare la forza morale di quel suo testamento. Hanno rinnegato Berlinguer per trasformarlo in una figurina indolore. Qualcuno – che lo aveva esaltato – ci ha spiegato che aveva sbagliato tutto. Persino una giornalista (ex) comunista come Miriam Mafai scrisse un saggio intitolato “Dimenticare Berlinguer” (per fortuna, anche di Miriam, ad essere dimenticato è stato il saggio). Una intellettuale peraltro seria come Claudia Mancina ne ha scritto un altro – “Berlinguer in questione” – con lo stesso messaggio. Hanno provato a dire che Berlinguer era conservatore, che non aveva capito la modernità. Che era destinato fatalmente alla sconfitta, proprio lui che in quel 1984, capolista anche dopo la sua morte, trascinò il Pci al primo e unico sorpasso della Dc in un’elezione nazionale. Piero Fassino ha scritto nella sua dimenticabile autobiografia (“Per passione”) che Berlinguer era morto perdendo la sua partita a scacchi con Craxi. Persino Walter Veltroni, in un film umanamente coinvolgente (ma politicamente ambiguo) si è spinto a dire «Berlinguer è morto dopo il sequestro Moro», (ovvero che la sua politica era finita con il compromesso storico). Ma non è vero.

Berlinguer oggi è più studiato di vent’anni fa, in tutto il mondo: è indicato come modello da Lula e da Tsipras (talvolta, in modo predatorio persino da Matteo Salvini!) e il resto sono goffi tentativi di uccidere il padre. Materia per psicanalisti. Vero, invece, è che tutto ciò che Berlinguer ha fatto da allora in poi, ha preparato la sua ultima battaglia: una lunga rincorsa verso quel comizio-testamento. La lotta contro i licenziamenti a Torino, il discorso alla Fiat dalla parte degli operai («Se sceglierete di occupare il Pci sarà dalla vostra parte»), le manifestazioni contro i missili («Sia quelli dell’Est che quelli dell’Ovest!»), le visite ai Francescani di Assisi («Le armi producono la guerra»), l’addio alla “solidarietà nazionale” e al governo dopo la catastrofe del terremoto in Irpinia (dove si precipitò trovando la gente ancora sotto le macerie), la condanna dell’invasione della Polonia, la lotta contro l’ala filosovietica del partito, la guerra contro l’ala migliorista che sognava “l’Unita socialista” (con Bettino Craxi!).

Su questo giornale, a pagina 32, trovate l’Intervista a Eugenio Scalfari sulla Questione Morale («I partiti hanno occupato lo Stato…»). La teorizzazione della «diversità» gli fece piovere sulla testa i fischi di Verona al congresso del Psi, nel 1984, poco prima di morire. Sull’ultima grande battaglia simbolica contro il taglio della scala mobile (oggi completamente rimossa), Massimo D’Alema rivela nella sua intervista (a pagina 38) un retroscena illuminante, uno dei rari momenti di rabbia di Enrico: «È una ingiustizia: così pagheranno tutto i lavoratori!». Stare da una parte, pagandone il prezzo. Questa era la lezione. Una memoria così difficile da maneggiare, soprattutto per chi non è stato più da nessuna parte, o – come Matteo Renzi – si è collocato da un’altra parte.

Il paradosso ha una spiegazione: molti (e molti dirigenti dell’ex Pci, Pds, Ds) avvertono come un incubo il peso dell’eredità politica di quest’uomo, caduto in battaglia come nessuno prima e nessuno dopo. Era difficile piegare quel messaggio, mentre cresceva il mito di Berlinguer. Anzi: più la politica prendeva le distanze da lui, più il «dolce Enrico» cantato da Antonello Venditti, e trasfigurato da Roberto Benigni, diventava popolare. Solo uno tra gli ex berlingueriani, lo stesso D’Alema, ha scritto un libro di amarcord bello e struggente, estraneo al rito dell’abiura. Ci restituisce un Berlinguer quadrato, schivo, ma sempre capace di grande ironia. Lo stesso uomo che sfidava il suo caposcorta, Alberto Menichelli: «Ora io mi metto un cappello di sguincio, traverso questa piazza e non mi riconosce nessuno». Ci aveva provato, e si era ritrovato sommerso da abbracci, baci, ovazioni, costringendo la scorta a farsi largo per “recuperarlo” intero.

Berlinguer era da una parte per scelta di vita. Lui, figlio di una famiglia benestante, e progressista da tre generazioni: bisnonno garibaldino, nonno “cavallottiano” padre azionista, poi socialista, era diventato comunista con i moti del pane a Sassari. A 21 anni scriveva lettere dal carcere. Ma era diventato comunista divorando la libreria clandestina dello zio Ettorino, nel pieno del ventennio fascista (Bakunin, Marx, persino Lenin). Si era iscritto al Pci in una serra, ed era arrivato a guidare i giovani comunisti di tutto il mondo. «Non sono interessato al potere – dirà in una celebre intervista a Giovanni Minoli – se non come strumento per cambiare lo stato di cose presente». Arduo per un paio di generazioni di dirigenti, a sinistra, che non cambierebbero mai nulla, pur di conservare il potere. Ecco perché da mezzo secolo provano a disinnescarlo, ma non ci riescono: attraverso canali carsici, imperscrutabili ma potenti, il suo mito cresce. Un giorno qualcuno chiese alla ministra Maria Elena Boschi se preferisse Amintore Fanfani o Enrico Berlinguer. E la signorina, non ancora improvvisata madrina costituente: «Preferisco Fanfani». Poi aggiunse: «Perché è di Arezzo, come me». Geniale. La memoria di Berlinguer oggi è incredibilmente vivida tra tanti giovani che fanno politica, ma anche fra tantissimi che non sono in nessun partito: è diventata un giacimento etico.

Ho ricostruito di recente l’incredibile potenza dello strappo di Berlinguer con Mosca. Una battaglia che culmina nel discorso in cui, al congresso del Pcus del 1976, Berlinguer pronuncia una bestemmia in chiesa, affermando «il valore universale della democrazia» davanti a Leonid Breznev (a pagina 34 trovate un profetico articolo di Antonio Gambino che prevedeva queste scelte). Non si capisce la portata di questo strappo se non nel clima di consenso dogmatico che accompagnava il socialismo reale nel suo crepuscolo.

Un imbarazzato custode ideologico come Suslov, il giorno prima, aveva provato a dire ad Enrico di non usare il vocabolo «pluralismo» davanti ai delegati: «Quella parola, compagno Berlinguer, nella nostra lingua semplicemente non si usa più». Ma il segretario del Pci conosceva i sovietici: «Ah sì? Se non si usa più, la ricorderemo noi». Gli fu dimezzato, d’imperio, il tempo dell’intervento. Ma quando Berlinguer pronunciò le parole «democrazia» e «socialismo», tutti capirono, e nella grande sala ci fu un boato. Time gli dedicò la copertina, e i giornali di tutto mondo raccontarono lo strappo. Ecco perché la sinistra non può che ripartire da questa biografia, dal suo coraggio, e da questa lezione. Mentre il mondo della globalizzazione arranca, ferito dal Covid e dalla guerra, i «pensieri lunghi» del profetico ragazzo del Novecento tornano terribilmente attuali.

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