C’era una volta il modello Mattei: quando Eni divideva i profitti del petrolio con i Paesi produttori
Fino all’epoca coloniale, dal delta del fiume Niger proveniva soprattutto olio di palma. Tanto che, durante il dominio britannico, la regione era stata ribattezzata Oil Rivers Proctorate. Dopo la proclamazione d’indipendenza della Nigeria, nel 1960, quella stessa regione è passata a esportare invece principalmente “olio di roccia”: il petrolio (dal latino petra oleum). Il commercio dell’oro nero è quindi proseguito nel segno del dominio delle imprese occidentali e del tentativo nigeriano di riprendere il controllo delle proprie risorse. Oggi, a 50 anni dalla pubblicazione del celebre libro dello storico guyanese Walter Rodney, la vicenda del giacimento Opl 245 (raccontata nelle pagine precedenti, ndr) rappresenta un caso eclatante di «Come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa». Iniziamo col dire che il core business di una società petrolifera – estrarre petrolio e gas naturale – è la principale causa del riscaldamento globale. L’Agenzia internazionale dell’energia ci ricorda che per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette di CO2 entro il 2050 occorre bloccare da subito l’esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti. Dannosa per il Pianeta e per i territori che ospitano le maggiori riserve di idrocarburi, l’industria petrolifera dovrebbe almeno produrre il massimo beneficio economico possibile per i Paesi esportatori. E non è certo questo il caso di Opl 245, la cui sigla è diventata un simbolo dello scambio ecologico ineguale tra Paesi industrializzati e Paesi meno sviluppati, specialmente in Africa.
Fifty fifty
La consuetudine di identificare l’oro nero con governi autoritari e danni economici e ambientali (la “maledizione del petrolio”) racconta peraltro solo parte di una storia di emancipazione. I Paesi dell’Organizzazione degli Stati esportatori di petrolio (Opec) hanno saputo trarre anche enormi benefici dalla risorsa naturale che custodiscono. L’ascesa di questi petro-Stati iniziò sulle sponde di Maracaibo, il più vasto bacino idrico dell’America Latina, così ricco di petrolio da consentire al Venezuela nel 1929 di diventare il maggiore esportatore di petrolio al mondo (cederà il passo quarant’anni dopo all’Arabia Saudita).
Furono i politici e i tecnocrati di Caracas, incalzati da agguerriti movimenti sociali, a disegnare nel 1948 lo schema petrolifero conosciuto come “fifty/fifty”, subito preso a modello anche nel Golfo Persico, l’altro centro delle esportazioni di petrolio dopo la Seconda guerra mondiale (le due aree coprivano insieme oltre il 90% delle esportazioni mondiali). Lo schema, apparentemente equo, prevedeva che le multinazionali anglo-americane che monopolizzavano la produzione venezuelana e il Governo locale si spartissero a metà i profitti dalla vendita del petrolio. L’afflusso di questa rendita petrolifera consentì al Venezuela, il Paese più povero dell’America Latina all’inizio del Novecento, di arrivare a registrare il reddito pro-capite più alto del continente. Le signore venezuelane che viaggiavano nelle capitali latinomaericane ed europee si portavano appresso il nomignolo “dame dos!” (dammene due). Immigrati più o meno qualificati giungevano a Caracas da tutto il mondo attratti dagli alti salari. Ma il “fifty/fifty” era manna dal cielo anche per le multinazionali petrolifere, cui garantiva ritorni sugli investimenti senza paragoni con quelli di altri settori industriali. Queste figuravano costantemente in cima alla classifica delle più ricche società al mondo, e generavano talmente tanta cassa da autofinanziarsi gli imponenti investimenti necessari per perforare in luoghi estremi come i deserti dell’Arabia.
Tuttavia ben presto, già alla fine degli anni Cinquanta, quel modello entrò in crisi. Un ruolo importante lo giocò il fondatore dell’italiana Eni, Enrico Mattei che, per rompere l’oligopolio delle Sette sorelle petrolifere, propose nel 1957 allo Shah di Iran un accordo differente.
La svolta di Enrico Mattei
Il “modello Mattei” non solo garantiva al Governo persiano il consueto 50% sui profitti petroliferi, ma prevedeva anche che Eni e Governo locale formassero una joint venture paritaria per gestire la produzione. L’Iran avrebbe così beneficiato di una fetta dei profitti superiore a quella prevista con il “fifty/fifty”, e in più – e in questo consisteva la vera rivoluzione – i tecnici iraniani, grazie alla collaborazione degli italiani, avrebbero potuto apprendere tecnica e segreti dell’industria più vitale per il futuro del proprio Paese. Mattei non fu fortunato in Iran, ma la sua intuizione ispirò tecnocrati e politici dei Paesi Opec. Il presidente Eni si rivolse così ai rappresentanti tunisini nel 1960, l’anno della decolonizzazione africana in cui ben 17 Paesi del Continente dichiararono l’indipendenza: «Sono qui per rispondere al vostro appello di investimenti e per aiutarvi nella lotta contro il sottosviluppo»; «Le ricchezze dell’Africa e dell’Asia sono immense. La geografia della fame è una leggenda: è legata solo alla passività, all’inerzia creata dal colonialismo nelle popolazioni autoctone»; «Esiste una condizione coloniale quando manca il minimo d’infrastruttura industriale per la trasformazione delle materie prime». Immaginiamo l’impatto di queste parole nei cuori e nelle menti di popoli che, dai vicoli di Algeri fino alle torri di raffinazione sull’sola di Abadan in Iran, erano abituati a essere trattati con un misto di paternalismo e del più bieco razzismo, quando non alla repressione militare se reclamavano diritti. Tra il 1960 e la metà degli anni Settanta, tutti i grandi esportatori, dal Venezuela alla più moderata Arabia Saudita, iniziarono a decidere in autonomia la fiscalità del petrolio. All’inizio degli anni Settanta la tassazione arrivò a superare il 90% dei ricavi della vendita di un barile di petrolio, e i governi locali assunsero il controllo diretto dei giacimenti nazionalizzando l’industria petrolifera (il Venezuela nazionalizzò nel 1975, un quarto di secolo prima dell’ascesa di Chavez).
Fra i maggiori protagonisti della conquista della sovranità petrolifera in Nigeria vi fu Chief Philip Asiodu, uno dei cosiddetti super permanent secretaries del generale Gowon (presidente della Nigeria dal 1966 al 1975). Asiodu sponsorizzò l’ingresso del Paese nell’Opec nel 1971, consapevole del fatto che, per uno Stato in cui il petrolio rappresentava ormai i tre quarti delle esportazioni, fosse indispensabile coordinarsi con gli altri petro-Stati. La generazione di Chief Asiodu si batté per far nascere una società petrolifera statale con partecipazione maggioritaria nei giacimenti, in modo che i tecnici nigeriani potessero imparare a gestire autonomamente l’industria.
In Genocidio in Nigeria lo scrittore e attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa, giustiziato nel 1995 per le sue battaglie contro Shell e contro la complicità del Governo federale nigeriano, riporta un appello del lontano 1970 in cui un rappresentante degli Ogoni denunciava la presenza di un solo dirigente di quell’etnia nelle società controllate da Shell e British Petroleum che dominavano la produzione nel delta del Niger. Un solo dirigente in cambio dell’inquinamento di fiumi che rivestivano un carattere sacro per gli Ogoni, della distruzione dell’agricoltura e della pesca, dell’invadente presenza di torce che giorno e notte bruciavano nella foresta i residui dell’estrazione, della devastazione delle strade, martoriate dal passaggio dei pesantissimi camion delle società petrolifere.
La vicenda nigeriana
Perché è necessaria questa lunga premessa? Perché l’accordo del 2011 tra Eni, Shell e il Governo federale nigeriano, quale che siano gli intrighi che hanno portato alla sua firma, rappresenta una pietra tombale sulle speranze riposte da tecnocrati come Chief Asiodu. Il Production sharing agreement (Psa) siglato nel 2012 per l’Opl 245 a seguito dell’accordo del 2011 ha quattro caratteristiche che riportano le lancette della storia indietro rispetto alle conquiste dei Paesi esportatori.
In primo luogo non prevede versamento allo Stato di royalties, che nell’industria petrolifera statunitense fin dall’Ottocento sono state fissate al 12,5% del prezzo del barile e che, quasi ovunque, generano una fetta consistente della rendita petrolifera. In secondo luogo non contempla alcuna partecipazione della società petrolifera nazionale. Eppure nei Paesi Opec le società nazionali detengono usualmente una partecipazione maggioritaria nei giacimenti, sia come veicolo a garanzia delle entrate fiscali, sia come strumento di controllo di tecniche estrattive e best practices, sia, infine, come volano per l’economia nazionale con l’affido di commesse a imprese locali. E, come fa notare l’avvocato Juan Carlos Buoé, dello studio internazionale Curtis, Mallet-Prevost, Colt & Mosle, questa partecipazione sarebbe stata ancor più indispensabile in una situazione in cui non era previsto il pagamento di royalties. In terzo luogo, una volta recuperati gli investimenti, l’intesa stabilisce una tassazione dei profitti di Eni e Shell al 50%, secondo il superato modello semi-coloniale del 1948. In quarto luogo il Psa rende il “rientro” (in inglese back in rights) della società nazionale talmente oneroso da essere sostanzialmente impossibile. Non a caso, chiamati a valutare l’accordo, gli organismi tecnici nigeriani competenti, la Nigerian National Petroleum Corporation (Nnpc) e il Department of Petroleum Resources (Dpr), lo avevano considerato «altamente pregiudizievole per gli interessi del Governo». Non solo. Interpellato dal Governo nigeriano nelle successive vicende giudiziarie a verificare la congruità del prezzo pagato da Shell e Eni per l’Opl 245 (1,3 miliardi di dollari), Stephen Rogers di Arthur D. Little – società di consulenza talmente prestigiosa che già l’Opec vi si era rivolto nei suoi primi negoziati del 1961 (ironia della sorte, in quell’occasione Opec si era appoggiata anche all’ufficio studi Eni guidato da Giorgio Fuà) – ha dichiarato la cifra assolutamente incongrua. Per l’esperto, soprattutto in considerazione dell’assenza di partecipazione della società nazionale, e sulla base degli stessi parametri utilizzati da Eni e Shell, il valore della concessione sarebbe di 3,51 miliardi di dollari, quasi 2 miliardi di dollari in più di quanto pagato. Secondo i calcoli di un’altra società di consulenza ingaggiata da Global Witness, l’Ong che assieme a Re-Common ha seguito la vicenda Opl 245 fin dal suo inizio, se il contratto si fosse basato sulle regole del 2005 per giacimenti simili, il Governo federale nigeriano avrebbe incassato nel corso della vita del giacimento 5,9 miliardi di dollari in più di quanto incasserà basandosi sull’attuale accordo con Eni e Shell. Che lezioni possiamo trarre da questa storia? I Paesi africani esportano quasi solo materie prime, dal petrolio, al cacao, al cobalto, e importano in cambio prodotti manufatti. Nonostante il drenaggio delle proprie risorse, la loro bilancia commerciale è quasi costantemente in passivo con l’Unione europea, il loro maggior partner commerciale. Mentre le aziende straniere che dominano la produzione in Africa utilizzano ogni metodo, più o meno lecito, per sottrarsi alla fiscalità a proprio carico.
Come fanno gli arabi
Difficile stupirsi della crescente influenza cinese nel continente se consideriamo che, per esempio, a partire dal 2018 la Cina ha investito in Nigeria 7,5 miliardi di dollari in infrastrutture, mentre il nuovo “modello Eni” nel caso Opl 245 rischia di sottrarre alle casse nigeriane quasi 6 miliardi. Questo meccanismo non può reggere nel lungo periodo. Nel 2020 i Paesi dell’Africa sub-sahariana hanno accumulato debiti per oltre 700 miliardi di dollari, più che raddoppiati in dieci anni. E così a molti africani, vittime di cambiamenti climatici e di instabilità politica, non resta che la via dell’emigrazione. La più popolosa città nigeriana, Lagos, secondo uno studio pubblicato dal Washington Post, diventerà nel 2100 la più grande megalopoli del mondo, raggiungendo gli 80 milioni di abitanti. L’inventore dell’afro-beat Felat Kuti cantava negli anni Settanta «Ci vuole un dottorato per guidare a Lagos». Si potrebbe aggiungere che c’è bisogno di tappi per le orecchie per proteggersi dal frastuono dei generatori a petrolio, indispensabili a far fronte alle continue interruzioni dell’elettricità. E servono i paraocchi per non vedere i ragazzini che lavorano a mani nude nelle fogne.
Chiunque strizza l’occhio all’abilità degli sgamati negoziatori di Eni dovrebbe riflettere sul senso profondo delle parole pronunciate da Mattei in quel discorso del 1960: «Io offro anche un mercato per l’eccedente della vostra produzione e vi offro soprattutto la parità, la cogestione, la formazione di una élite tecnologica perché non siate il ricevitore passivo di una iniziativa straniera».
Le cose potrebbero andare diversamente? Certo. Basta guardare agli Emirati Arabi Uniti, un Paese che fino al 1971 nemmeno esisteva e che, a differenza della Nigeria, non può vantare un premio Nobel per la letteratura, un sapere artigianale diffuso, una terra adatta in molte zone alla produzione agricola. Negli Emirati, in un giacimento importante come Upper Zakum, la quota del Governo su ogni barile di petrolio prodotto si aggira attorno al 97% senza che nessuno gridi allo scandalo. Le risorse naturali della Nigeria potrebbero essere impiegate per lo sviluppo locale. Il gas naturale potrebbe ad esempio garantire la produzione locale di elettricità. Si potrebbero offrire alternative al modello cinese, basato su investimenti infrastrutturali a debito, rinnovando un modello Mattei incardinato su una cooperazione di lungo periodo che preveda partnership paritarie tra imprese nigeriane e italiane, non solo nel settore estrattivo. I governi europei potrebbero intervenire attivamente per limitare il flusso di capitali illeciti africani verso le piazze finanziare europee che alimenta corruzione ed evasione fiscale. Si potrebbe modificare la governance di partecipate come Eni attribuendo un peso maggiore alle rappresentanze dei lavoratori e alla realizzazione di missioni industriali di lungo periodo, anziché lasciare ogni decisione nelle mani di manager concentrati sul generare profitti a breve.
La solidarietà non basta
Mattei a volte dimenticava di ritirare il suo stipendio. Il presidente di Eni l’anno della sua trasformazione in Spa, nel 1992, quando il cane a sei zampe già figurava tra le prime cinque società petrolifere al mondo per redditività, aveva un salario pari a circa 300mila euro attuali. Nel 2019 l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ha intascato uno stipendio di 5,6 milioni di euro, più 933mila euro in azioni, e l’azienda, che dice di voler investire decisamente sulle rinnovabili, ha invece impiegato in buy back delle proprie azioni ben 400 milioni di euro nel 2021. Esiste un legame tra la finanziarizzazione delle imprese e lo sfruttamento del lavoro in Europa, la scomparsa di missioni pubbliche per le grandi imprese, e la rapacità verso le risorse naturali in Africa. Un tempo, non troppo lontano, esistevano movimenti politici internazionalisti che denunciavano l’imperialismo economico. Oggi si pensa che a risolvere i problemi africani bastino gli oboli della macchina degli aiuti allo sviluppo e la, pur necessaria, solidarietà delle organizzazioni umanitarie. Ebbene, Opl 245 dimostra che non è così.
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