Centrosinistra, la coalizione è indispensabile. Ma solo se credibile
Dalla questione Renzi alla faida interna al M5S. Il campo largo può fare l’en plein alle prossime regionali, eppure non se la passa così bene. L’alleanza è necessaria, solo a patto però di fare scelte chiare e nette
La democrazia italiana è malata: non da oggi, almeno dal 2011. Da quando, cioè, la tendenza tecnocratica, che già aveva fatto irruzione sulla scena negli anni bui di Tangentopoli, si è accentuata al punto di trasformare un’alleanza innaturale, quella fra centrodestra e centrosinistra, in un’alleanza strutturale, tanto che sotto il Governo Renzi si arrivò addirittura a teorizzare il Partito della Nazione previo Patto del Nazareno.
Ebbene, noi la pensiamo come Bersani, il quale ha sempre sostenuto che una matura democrazia occidentale abbia bisogno di respirare con due polmoni, pena la disaffezione popolare e l’aumento esponenziale dell’astensione.
C’è un problema: il campo largo rischia di vincere le prossime sfide elettorali ma non se la passa affatto bene.
Elly: che fare?
C’è la seria possibilità che il Partito Democratico viva un autunno di gloria. Si vota, infatti, in tre regioni tutt’altro che pregiudizialmente ostili e la prospettiva che si intravede è un trittico di vittorie che dovrebbe consolidare la segretaria Schlein e rafforzarne le ambizioni di essere la candidata a Palazzo Chigi del «campo progressista» alle prossime politiche.
Peccato che Liguria, Emilia Romagna e Umbria rischino di restare casi isolati, a meno che non si riesca ad allestire una coalizione degna di questo nome, con una sinistra autorevole guidata dal duo Conte-Fratoianni, un centrosinistra guidato dalla stessa Schlein e un centro cattolico-liberale in grado di amalgamarsi con le altre due anime. È alle viste una prospettiva del genere? Purtroppo, no. Di Avs e M5S ci occuperemo a breve. Sul rapporto fra il Pd e il duo Renzi-Calenda, invece, vale la pena ragionare subito.
Se Elly Schlein oggi fa la segretaria del Pd, difatti, è perché centinaia di migliaia di persone che non votavano Pd da almeno un decennio, o non l’avevano mai votato, hanno visto in lei una novità credibile e un’alternativa al renzismo che ha egemonizzato quel partito dal 2013 in poi. Basterebbe questo per capire il da farsi.
Se a ciò aggiungiamo gli applausi che ha ricevuto Conte quando ha chiuso le porte ai due, le contestazioni che ha subito Gentiloni quando ne ha caldeggiato il rientro e la platea semi-vuota che ha accolto Maria Elena Boschi, il tutto alla Festa nazionale dell’Unità di Reggio Emilia, cuore pulsante della militanza dem, è evidente che potremmo anche chiuderla qui.
Ahinoi non è così, perché Schlein, che pure era uscita dal Pd nel 2015 per manifesta incompatibilità con la proposta politica renziana, sembra voler andare avanti su una linea «testardamente unitaria» che, però, rischia di danneggiarla.
Perché va bene trovare una sintesi sul tema drammatico della guerra, dove, a dire il vero, può far poco; va bene schierarsi con i diritti dei lavoratori ma, al contempo, non dispiacere al gotha dell’imprenditoria riunito a Cernobbio; va bene voler tenere insieme una comunità che, da un certo punto di vista, è sempre stata una Babele; va bene tutto, ma su Renzi e Calenda bisogna essere intransigenti. Pensavano di fare al Pd ciò che Macron ha fatto ai socialisti francesi: se non sanno leggere il quadro storico né il contesto nazionale, non è un problema nostro.
A sinistra, per convincere, e di conseguenza vincere, serve innanzitutto la passione, e nessuno lo può sapere meglio di una personalità che a suo tempo, ribadiamo, ebbe il coraggio di uscire dal partito renziano perché non ne condivideva nulla. La comunità che il 26 febbraio 2023 si è messa in fila ai gazebo per votarla non ha cambiato idea.
Avs: consolidarsi
Per assurdo, per una volta, non è la sinistra a essere divisa; anzi, stando agli ultimi sondaggi, si può dire che versi in ottima salute. Il buon risultato conseguito alle europee, l’entusiasmo suscitato dalle candidature di personaggi iconici come Ilaria Salis e Mimmo Lucano, le posizioni nette sul tema della pace e della giustizia sociale, una classe dirigente complessivamente valida, il rifiuto di ogni forma di estremismo, con conseguente collocamento in pianta stabile nella coalizione di centrosinistra, e il ruolo di cerniera fra Pd e M5S che Fratoianni e Bonelli si sono ritagliati sono gli elementi alla base del decollo di un partito, che alle politiche non era andato al di là del 3,6% mentre adesso è accreditato dai sondaggi del doppio.
Certo, ora i rossoverdi dovranno stare attenti a non commettere errori, a non dissipare il credito di fiducia guadagnato e a consolidare un risultato che può costituire davvero un nuovo inizio per una storia che sembrava esaurita e, invece, sta ritrovando la sua ragione di esistere, ma non c’è motivo per essere pessimisti.
M5S: cambiare tutto
Giuseppe Conte si è espresso senza giri di parole: non può accettare di continuare a far parte di un soggetto in cui c’è un personaggio che si eleva al di sopra degli altri, una sorta di ayatollah Khamenei – ci si passi la battuta – che detta legge a vita. E ha ragione.
Una struttura del genere è incompatibile con la democrazia occidentale e con il principio secondo cui i partiti devono essere aperti e contendibili. D’accordo che il leaderismo, vero male del nostro tempo che sta corrodendo la politica e le istituzioni, è ormai diffuso pressoché ovunque, ma a tutto c’è un limite. E Grillo, scagliandosi contro la costituente d’autunno e proclamando l’intangibilità dei suoi dogmi, lo ha superato.
Il punto è come reagiranno adesso Conte e il gruppo dirigente a lui vicino. Ci permettiamo di dar loro due consigli.
È inutile impantanarsi in un’infinita battaglia legale sull’appartenenza del simbolo: Grillo non è Di Maio e il M5S non ha senso senza la presenza del suo fondatore. Pertanto, a Conte, che palesemente vuole fare altro, conviene dar vita a un soggetto nuovo: una sinistra movimentista in grado di andare a recuperare i voti degli ultimi e degli esclusi, specialmente al Sud, e di condurli all’interno di una coalizione che non può prescindere dalla tutela dei dannati della globalizzazione e delle principali vittime dei disastri che essa ha generato. Un nuovo simbolo, un nuovo nome, un nuovo statuto e via tutte le formule magiche che hanno condotto il M5S alle soglie dell’ininfluenza.
La scissione, infatti, com’era vero a suo tempo per i bersaniani nei confronti di Renzi, funziona solo se te la intesti e la porti avanti con determinazione; se la subisci, è destinata al fallimento.
L’altra esigenza di Conte è di circondarsi di una classe dirigente colta e preparata: ne dispone, soprattutto al Senato, ma deve dar vita a una vera segreteria ed elaborare proposte incisive per il futuro del Paese. Salario minimo, congedo paritario, Reddito di cittadinanza e altre ottime idee non sono più sufficienti a recuperare consenso: hanno già dispiegato i loro effetti, al pari dell’afflato pacifista, per quanto sincero e indispensabile. Se il futuro partito di Conte vuole ritagliarsi un ruolo significativo, dunque, non può prescindere dalla messa in discussione totale del modello socio-economico e di sviluppo che governa attualmente la nostra società. Qualora dovesse sfaldarsi o implodere, al contrario, a rischio non c’è solo il campo progressista ma proprio il nostro assetto democratico.