La colpa è sempre del padrone? Perché sui cani che uccidono la questione è prima di tutto culturale
Ancora una volta una persona è morta a causa di un’aggressione da parte di cani, anche stavolta i dettagli sono orrendi, anche stavolta rischiamo pesantemente di passare sopra alla questione, di derubricarla come incidente. Perché?
Il rischio è un costrutto culturale, e se ogni società stabilisce la quantità e la qualità di ciò che percepisce come pericoloso, in Occidente, e in particolare in Italia, vige un’interdizione sancita anche dalla legge ad associare il cane alla pericolosità. Prima di tutto andrebbe considerato che in una società che nei supermercati ha diviso gli animali in specie da mangiare e specie da accudire, probabilmente questa postura è amplificata anche dagli interessi della pet economy – 4 miliardi di euro l’anno in Italia e 220 nel mondo. Per non parlare del fatto che, laddove per svariate ragioni culturali ed economiche si fanno meno figli, il cane è un ottimo sostituto della prole: soprattutto in termini di ubbidienza e di affettività consente di avere relazioni assai poco conflittuali, idilliache, ideali. Stesso dicasi per la crescente solitudine relazionale: il cane è nettamente meglio di tanti partner, generalmente con il cane non si litiga, quando rientri a casa è sempre felicissimo di vederti, sei il suo eroe, ti dà sempre ragione.
Questo perché il cane è un animale poco “naturale” e molto “culturale”: è un “animale artificiale”, prodotto dall’uomo a sua immagine e somiglianza, che si co-evolve con l’uomo in funzione della sua capacità plastica di adattamento e della sua elevata intelligenza emotiva. Per questo, a volte dire che amiamo gli animali, che amiamo certi animali, i nostri animali, è un modo per trasformarli in specchi, per dire che amiamo noi stessi, per sancire la nostra intoccabilità. E questo vale soprattutto con i cani. Così capita che si esce per una corsetta e si viene sbranati da tre molossoidi e la notizia viene intesa come una tragica fatalità. Il cane è il nostro animale sacro, e, come estensione dell’ego del proprietario in una società patologicamente individualistica, non può essere oggetto di negazioni, di proibizioni, di critiche, di sanzioni.
Ogni volta che qualcuno muore ammazzato da questi animali sul megafono dei media vengono ripetuti i mantra alienanti secondo cui “non esistono razze pericolose” e per cui “la colpa è sempre e solo dei padroni”, così la popolazione italiana viene intontita da una cappa indifferenza mediaticamente indotta ad alimentare un diffuso sentimento di menefreghismo, un ripiego egoistico, per cui, finché non tocca a noi, il problema non esiste. Così rimuoviamo che ogni anno in Italia sono registrate 70mila aggressioni da parte di cani, diverse delle quali con esiti gravi o letali; che a livello planetario il cane è il quarto animale più pericoloso per l’uomo, con oltre 17.000 uccisioni all’anno. E queste uccisioni avvengono nella stragrande maggioranza da parte di alcuni cani, in funzione della massa e, prima di tutto della potenza mascellare, oltre che dell’aggressività.
“La colpa è sempre e solo del padrone” – frase sciocca che si accompagna di solito allo slogan “i cani sono meglio delle persone” – andrebbe rivista a partire dal fatto che se la colpa è del padrone la causa e del cane.
La colpa va declinata in termini di responsabilità penale, dove andrebbe rivisto lo scenario di desolante leggerezza che vige in merito alle sanzioni di questi fatti, dal diffuso laissez faire quoditiano verso gli obblighi di custodia mancati dai proprietari, alle pene leggere sulle aggressioni, fino al fatto che nei casi estremi i proprietari spesso finiscono con il cavarsela con condanne lievi, quando invece bisognerebbe contemplare l’imputazione di omicidio con dolo eventuale per chi lascia certi cani incustoditi. La causa invece per molti aspetti riguarda proprio la differenza tra le razze canine, differenza che nella società italiana è stata rimossa per editto giuridico.
Infatti, l’ordinanza sulle razze pericolose, la “black list” che categorizzava in modo un po’ semplicistico ma non del tutto errato una differenza tra “cani buoni” e “cani cattivi” è stata cassata nel 2009 dall’Ordinanza Martini, una normativa che contempla solo l’esistenza di “cani impegnativi”, a partire dalla premessa che la scienza non consente di stabilire un nesso tra razza e aggressività. In buona sostanza non solo l’impossibilità di stabilire nessi deterministici tra razza e aggressività viene rovesciata in un indeterminismo assoluto, ma il concetto di aggressività viene confuso con quello di pericolosità.
Questo per una implicita postura antispecista che coniuga erroneamente il principio generico dell’inesistenza delle razze umane in un indeterminismo egualitarista di facciata che consente di accomodarsi sull’affermazione irenistica di irrilevanza della razza anche per i cani. Oggi l’animalista esemplare e aggiornato è antirazzista anche in riferimento ai cani; e, non a caso, l’on. Francesca Martini all’epoca proclamava sui media che “non esistono razze pericolose!”, insomma, “i cani sono tutti uguali”. Invece è lapalissiano che la pericolosità dei cani varia marcatamente in funzione di caratteristiche ascrivibili primariamente alle razze e presenti anche negli incroci. Queste sono in primis la potenza mascellare, poi la stazza; come pure l’aggressività pur non dipendendo unicamente dalla razza (ma anche dalle selezioni interne alla razza, dal carattere dei singoli individui, dall’addestramento, e da fattori ambientali) è in una certa misura condizionata dalla razza (chiunque ha a che fare con i cani sa che di base l’indole di un Dogo è diversa da quella di un Carlino).
Un altro indizio che ci fa capire che c’è un fraintendimento molto rilevante sul concetto di pericolosità è la diffusa abitudine a parlare di “cani potenzialmente pericolosi”: dire “potenzialmente pericoloso” è ridondante, in quanto la pericolosità è data dalla potenzialità di cagionare un danno. Per cui, più che edulcorare la realtà affermando che ci possono essere cani “potenzialmente pericolosi” andrebbe compreso che alcuni cani sono più pericolosi di altri in quanto potenzialmente letali in funzione delle loro caratteristiche. Se non faremo i conti con questa diversità ne seguiteremo a subire i danni.
Insomma, per la legge italiana un Rottweiler è pericoloso come un Chihuahua, vale a dire che di fatto su questo tema il nostro ordinamento giuridico è accomodato nell’immaginario – senza fondamento e nefasto – del fanatico cinofilo medio. Così nel nostro Paese se si vuole possedere un’arma letale il modo più facile per farlo senza avere impedimenti e problemi è farsi un molossoide, portarlo in giro senza guinzaglio e, di fronte ai passanti terrorizzati, esclamare con la soddisfazione di un tiranno magnanimo che grazia il servo dalla morte, “tranquillo! è buono!”. D’altra parte, anche con le armi la colpa è dei proprietari, ma nessuno ammetterebbe che si possa girare con un kalashnikov e dire alla gente “tranquillo! non ti sparo!”.
Se riuscissimo a capire che certi cani, oltre ad essere dei “tenerissimi pelosi”, sono, di fatto, anche delle armi potenzialmente letali, forse la percezione collettiva su certi accadimenti cambierebbe, e con essa magari cambierebbe anche l’ordinamento giuridico. È una questione prima di tutto culturale, che riguarda l’antropologia del rischio, ovvero il modo in cui viene interpretata socialmente la pericolosità.
E nel nostro caso dovremmo comprendere che l’apparato giuridico-normativo che regola queste faccende non dovrebbe essere dominato da una postura animalista a ben vedere piccolo-borghese, individualistica, egocentrata, narcisistica, dove in fondo quello che conta, più che la tutela del cane, è la libertà del proprietario dagli obblighi verso il prossimo. È a tal fine che l’assunto di senso comune “la colpa è del padrone” (ovvero “dell’altro padrone, a me che so tenere i cani questo non succederebbe mai”) funziona come un mantra che serve a non pensare, che ci induce socialmente all’accettazione di questi rischi a partire dal costrutto (culturale infondato e nefasto) della generalizzata non pericolosità del cane. Già, il problema è la generalizzazione di fondo, il non comprendere che se qualche cane non è pericoloso, altri lo sono, e lo sono per molti versi in proprio relazione alla razza. Solo decostruendo questo stereotipo rassicurazionista – solo sostituendo l’“è colpa del padrone” con la consapevolezza che se la responsabilità è di certi proprietari la causa è data dalla pericolosità di certi cani – potremo iniziare a riconoscere e affrontare questi rischi.