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Lo sport più popolare al mondo è un pesce fuor d’acqua alle Olimpiadi

Immagine di copertina
Un momento della partita delle Olimpiadi 2020 tra Frrancia e Sudafrica

Per molti popoli il calcio è un fenomeno sociale talmente importante da renderlo difficile da assimilare agli altri sport, con il risultato che alle Olimpiadi, celebrazione dell’agonismo per antonomasia, risulta quasi essere un pesce fuor d’acqua. Noi italiani, che da qualche edizione dei Giochi non riusciamo a qualificarci, neanche ci accorgiamo che accanto al nuoto, alla ginnastica e al ciclismo su pista c’è anche lo sport più amato al mondo.

Proprio per questo strano fatto è arrivata una provocazione (ma neanche troppo) dal giornalista sportivo Jonathan Liew sulle pagine del britannico Guardian, il quale si chiede cosa c’entri il calcio con le Olimpiadi, e dicendo che se oggi i calciatori lasciassero Tokyo senza che le medaglie per il loro sport vengano assegnate, nessuno se ne accorgerebbe. Il dramma è quello che Liew dice è in gran parte vero, ma è anche profondamente sbagliato per ciò che dovrebbe essere lo spirito olimpico.

Oggi il torneo di calcio ai Giochi è un ibrido strano. Dal dopoguerra, infatti, è stato visto come qualcosa da mettere in secondo piano rispetto ai Mondiali, con le nazionali che spesso e volentieri hanno preferito convocare giovani o dilettanti rispetto alle proprie nazionali maggiori, fino stilare per Atlanta 1996 le norme che regolano l’attuale formula del torneo maschile: tutti i calciatori devono avere non più di 23 anni, salvo un massimo di tre fuoriquota. Dallo stesso anno è inoltre presente alle Olimpiadi anche il calcio femminile, sport per il quale tuttavia non valgono tali regole.

Il risultato di tutto questo è il torneo che vediamo oggi, con squadre composte da giovani troppe volte ancora non abbastanza formati al fianco di qualche talento precoce, cui talvolta si aggiungono i fuori quota scelti ogni volta in maniera diversa: vuoi qualcuno chiamato per fare davvero la differenza, vuoi un giocatore esperto per dare una marcia in più, oppure qualcuno a fine carriera cui nel palmares manca l’oro olimpico. La morale è che questo torneo, diluito nel tempo e non sempre con giocatori in grado di emozionare, si perde tra gare di sport di cui per quattro anni a malapena sentiamo parlare e che trovano alle Olimpiadi il loro meritato momento di gloria. Con il calcio che sembra quasi fare un passo indietro per educazione.

Eppure di squadre forti alle Olimpiadi se ne sono viste, come l’Argentina medaglia d’oro a Pechino 2008, che schierava in campo Messi, Aguero, Di Maria, Mascherano e il fuori quota Riquelme…ma al di là di queste lodevoli eccezioni, il torneo di calcio sembra qualcosa che non riesce a trovare la sua strada, complice forse anche la sua dispersività, con molte partite relegate in altre città per ragioni logistiche. Senza contare che le Olimpiadi cadono a pochissima distanza dagli europei e vanno a concludersi con l’inizio dei campionati: non il momento migliore per emozionare i tifosi di tutto il mondo con un torneo che non decolla.

Ma tutto questo, seppur amaramente vero, è anche profondamente sbagliato. Le Olimpiadi dovrebbero essere la celebrazione dello sport tutto, e la disciplina più seguita al mondo non può proprio starne fuori. Inoltre, i Giochi devono per loro natura essere inclusivi, e questo significa coinvolgere più Paesi e più atleti possibili, con tornei di discipline che vengano incontro alle diverse culture sportive. Pensiamo al Sudamerica, magari a Paesi come l’Uruguay, un Paese di appena tre milioni e mezzo di abitanti che ha vinto ben due Mondiali, o ai numerosi Paesi africani in cui il calcio è seguitissimo. Il calcio olimpico deve essere l’occasione per andare loro incontro, per coinvolgerli ed essere opportunità di partecipazione al torneo che deve celebrare lo sport.

Certo, se il calcio vuole dare il proprio contributo a questa grande festa deve però fare la sua parte e trovare una strada al proprio torneo. Da un po’ di tempo si parla della possibilità di svolgere i Mondiali di calcio non più ogni quattro, ma ogni due anni. Forse è una proposta un po’ bulimica, ma forse è una proposta che, provocazione per provocazione, ha già la soluzione in casa: valorizzare il torneo olimpico e farne una vera competizione tra nazionali, magari più ristretta.

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