Bonus figli? No grazie: il vero problema per la natalità è che mancano i servizi e le mamme sono discriminate
L'assegno da 240 euro al mese previsto dal Family Act della ministra Bonetti è un aiuto ma non risolve nulla
Bonus figli, assegno da 240 euro al mese nel Family Act
Un assegno universale da 240 euro al mese per ogni figlio a carico fino alla maggiore età per genitori con redditi fino a 100mila euro lordi annui. La proposta, avanzata dalla ministra della Famiglia, Elena Bonetti (Italia Viva), mira, in sostanza, a invertire la rotta della denatalità facendo leva sull’aspetto economico della maternità e del diventare genitori.
Mettere al mondo un figlio, si sa, comporta dei costi e delle spese non indifferenti e sicuramente una somma mensile può aiutare i genitori a far fronte alle uscite che ogni giorno si presentano.
Il Family Act di Italia Viva, però, sembra avere numerosi difetti, primo fra tutti proprio il fatto che le risorse economiche sono concentrate soprattutto sull’aspetto economico della maternità e troppo poco sull’annosa carenza di servizi alle famiglie, come l’accesso agli asili nido e sul contesto socio-culturale che attanaglia il sistema Italia.
Il tasso di fertilità italiano è pari al 1,32 nascite per donna, tra i più bassi d’Europa, e le cause del fenomeno sono svariate: incertezza economica, precarietà e popolazione in età fertile in diminuzione. Queste sono solo tre delle svariate ragioni, ma a pesare soprattutto è l’arretratezza culturale che impera. Basti leggere la storia di Chiara, raccontata dal Corriere della Sera: diventata mamma per la seconda volta in quindici anni di carriera professionale nell’azienda, Chiara è stata invitata a licenziarsi con le buone, velatamente minaccia, mobbizzata da superiori e colleghi. Tutto per aver osato fare due figli.
In Italia si fanno meno figli, il calo demografico è ormai decisamente concreto, la popolazione italiana è tra le più vecchie al mondo e le proiezioni disegnano un quadro infausto per il prossimo futuro. Come porre rimedio a tutto ciò? Evidentemente la leva economica è solo una delle tante soluzioni, ma riporre le speranze negli assegni universali per aumentare la natalità è politicamente miope.
Si dirà che il Family Act propone anche incentivi per aumentare gli asili nido e l’aumento del congedo retribuito per i papà da 5 a 10 giorni, ma davvero pensiamo possa essere sufficiente? Nonostante nascano sempre meno bambini, da sempre in Italia si parla, senza mai affrontarlo, del problema della scarsità di asili nido sul territorio nazionale.
Le neo-mamme, una volta finita la maternità obbligatoria o facoltativa che sia, si trovano davanti a una scelta: rinunciare al lavoro per stare a casa con i figli oppure tornare a lavorare spendendo ingenti somme mensili in baby sitter e asili nido. I nidi pubblici coprono un decimo del potenziale fabbisogno, il resto dei posti disponibili sono gestiti da asili nido privati che costano dai 400 fino a 700 euro al mese.
L’incentivo all’aumento degli asili nido dovrebbe essere molto concreto, le risorse economiche stanziate a finanziamento della misura molto più ingenti. Parliamo di miliardi in servizi, non di qualche centinaio di milioni.
Capitolo congedo di paternità: passare da 5 a 10 giorni retribuiti è senz’altro meglio di nulla, ma davvero pensiamo che dieci giorni per i papà siano sufficienti? Cinque mesi per le mamme e dieci giorni per i papà: già guardando all’entità del congedo è evidente come in Italia la cura dei figli sia sostanzialmente affare della donna, donna che si trova in posizione svantaggiata nel mondo del lavoro fino alla fine dell’età fertile.
Finché la sproporzione tra congedo di maternità e paternità sarà così concreta sarà difficile parlare di parità di diritti tra uomo e donna, la donna sarà sempre potenzialmente svantaggiata e discriminata nel mondo del lavoro. A questo proposito, è doveroso sottolineare che la deputata dem Giuditta Pini ha avanzato una proposta di legge per l’introduzione del congedo parentale obbligatorio esteso per 4 mesi per i papà, sulla scia delle riforme recentemente approvate in Spagna (dove il congedo di paternità al momento ammonta a 8 settimane e arriverà a toccare le 16 settimane nel 2021, ndr) o Svezia.
Il caso di Chiara è eloquente, ma è solo la punta dell’iceberg. Tra i venti e i quarant’anni le donne sono guardate con sospetto ai colloqui, se vengono convocate. L’essere in età fertile costituisce un problema per molti datori di lavoro, che subissano e torchiano le aspiranti lavoratrici di illegittime domande sulla vita privata: sei sposata? Sei fidanzata? Convivi? Vorrai un figlio? Hai figli?
Avere figli costituisce un potenziale impedimento, la lavoratrice non sarà predisposta a fare straordinari o potrebbe chiedere permessi e ferie per badare a eventuali malattie del figlio o problematiche annesse e connesse. Se la lavoratrice non ha figli, invece, scatta l’allarme: potrebbe volerne, dovrà andare in maternità, la maternità è un costo e una seccatura per l’azienda.
Di racconti e testimonianze di discriminazione femminile nel mondo del lavoro ce ne sono a iosa, ma nonostante si parli del problema da ormai almeno un decennio abbondante, nulla sembra essere cambiato sul fronte del contesto socio-culturale. Nel frattempo, il tasso di occupazione femminile è al 49,8 per cento, ben 18 punti percentuali sotto quello maschile e 13 punti in meno della media europea.