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Bolsonaro e i suoi fratelli: il virus ha ridicolizzato il darwinismo sociale dei fascio-populisti

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Tanto tuonò che piovve. Dai e ridai, sfidalo oggi e sfidalo domani, alla fine Jair Bolsonaro si è beccato quel virus dal quale si credeva invulnerabile per grazia di dio e volontà della nazione. Non so se si può dire che “è una buona notizia”. Ma sicuramente è una notizia importante. Non per l’uomo, dal momento che la sofferenza di ogni essere umano è comunque cosa triste. Ma per il simbolo che aveva scelto di impersonare, facendo di sé – del proprio corpo, del proprio atteggiamento, dei propri comportamenti – un messaggio vivente contro ogni tipo di precauzione. Un proclama quotidiano dell’irresponsabilità sociale e del disprezzo della vita, continuando a disseminare a piene mani le cattive pratiche che hanno portato il suo Paese al secondo posto nel mondo per numero di contagi (veleggia verso i due milioni) e per numero di morti (67mila all’8 luglio). D’ora in poi sarà più difficile che quel messaggio sciagurato possa essere ascoltato senza un moto di rigetto.

Non è – la sua – l’Hybris dell’uomo tragico greco, che sfida l’ira degli dei (sarebbe concedergli troppo). E’ piuttosto il bullismo adolescenziale da eccesso di testosterone di chi pensa di affermare una propria superiorità irridendo le forme civili degli altri. Sta in questo cliché l’ostentato, maniacale rifiuto del distanziamento, con la ricerca teatrale dell’assembramento, del bagno di folla, del banchetto orgiastico; l’odio per la mascherina, assunta a divisa della pavidità di contro all’esibizione del volto nudo da cui si riconoscerebbe l’uomo d’onore e di coraggio; il conflitto istituzionale con i governatori “prudenti” che avevano deciso il lockdown; e l’istigazione alla rivolta e alla disobbedienza indirizzata alle bande di hooligans che ne trasgredivano le ordinanze.

Fin dall’inizio della pandemia – lo ricorda oggi il New York Times – aveva definito l’infezione “a measly cold“, un “misero raffreddore”. E a chi, ad aprile avanzato, gli domandava del crescente numero di morti in Brasile replicava “So what? Sorry, but what do you want me to do?” (E allora? Scusa, ma cosa vuoi che ci faccia?”). Nell’ultimo mese ha fatto di tutto: sfilato a cavallo tra la folla plaudente dei seguaci, sfidato le sentenze dei giudici che gli imponevano l’uso in pubblico della maschera, arringato camionisti ed evangelici (due categorie che hanno lasciato il segno nella vicenda del golpismo latinoamericano) in rivolta contro l’arresto precauzionale dei traffici e la chiusura delle chiese, finché la febbre l’ha fermato.

Prima di lui era toccato a Boris Johnson, anch’egli tra i fautori dell’herd immunity (dell’immunità di gregge), grande minimizzatore dei pericoli del virus, finito a sua volta in terapia intensiva e salvato per un pelo. Mentre Donald Trump resiste fuori dal pronto soccorso, ma il suo Paese è in assoluto il peggiore al mondo per numero di contagi (3.100.000) e di morti (134mila) a riprova che le misure sanitarie di contrasto – da lui irrise ed esorcizzate – funzionano eccome rivelandosi indispensabili. E che il loro rifiuto o la loro sottovalutazione costano molto, ma molto caro, ai governanti, ma soprattutto ai loro popoli. Rispetto ai quali il populismo – soprattutto il populismo di ultima generazione, il populismo sovranista con forti connotazioni culturali e politiche di destra estrema – si rivela il peggior nemico proprio sul terreno del bios e del corpo, della loro preservazione e sicurezza.

Possiamo chiederci che cosa abbiano in comune questi tre “nemici del popolo” cosiddetti populisti, oltre ad appartenere appunto a quella estrema espressione del sovranismo nazional-populista che è, per molti aspetti, la vera vittima politica del Coronavirus. Il vero “perdente” nella sua incapacità non solo di difendere i tanto amati confini dalla dimensione globale del morbo – per sua natura non “confinabile” con muri o filo spinato – ma anche solo di realizzarne la pericolosità e di vederne la carica di minaccia.

Si può rispondere che condividono uno strano mix di esistenzialismo fascistoide di origine primo-novecentesca (l’antropologia negativa in cui Umberto Eco aveva visto le tracce del “fascismo eterno”) e di individualismo ultra-liberista tardo-novecentesco (l’economicismo totale di stampo thatcheriano che riconosce l’utile come unico valore): in fondo il peggio delle diverse stagioni del secolo breve. Appartiene alla prima radice il rapporto torbido che quella “cultura” intrattiene con la morte, un po’ marinettiano e un po’ avanguardista: il senso di superiorità che l’indifferenza verso il morire (soprattutto quello degli altri) conferisce a chi lo esibisce rispetto a chi lo teme, declassato a figura servile – “podagroso”, “panciafichista”, “schiavo della materia” e indegno delle vette dello “Spirito”, che sarebbero i tratti che distinguono il servo dal Signore. E’ l’atteggiamento che faceva scrivere il fatidico ME NE FREGO sui gagliardetti degli squadristi accanto al teschio col pugnale tra i denti. O cantare alle brigate nere antipartigiane l’inno alla morte che “fa la civetta sul campo di battaglia” invitando a “baciarle la fronte”. Vecchia tecnica retorica per tracciare confini tra uomini e no…

Appartiene invece alla seconda radice il primato degli affari su ogni altro aspetto del vivere: il business must go. L’idea dell’esistenza come una perenne struggle for life in cui i deboli devono soccombere perché i forti possano prosperare. Una sorta di estremo darwinismo sociale in cui la pandemia può svolgere lo stesso compito che nel futurismo d’inizio novecento aveva la guerra come “igiene del mondo”, purché lasciata fare “il suo lavoro” mortifero. Quelle due schegge di passato si sono in qualche modo intrecciate e fuse in questo cattivo presente, per allestire la gigantesca trappola in cui – novelli pifferai magici – gli apparentemente muscolari capi di tre grandi Paesi, in realtà impotenti di fronte al più piccolo dei micro-organismi, hanno trascinato i loro popoli.

Li abbiamo visti anche qui gli emuli di quel cliché. Le piazze “smascherate” dei Pappalardo e dei Salvini. I corpi denudati l’estate scorsa al Papeete e riproposti nei selfie sparati a raffica a volto scoperto cheek to cheek col Capitano a sua volta “nudo”. Sono la traduzione più o meno letterale di quella stessa sceneggiatura. Ma poi ci sono gli altri. Quelli che pensano di essere diversi, estranei a quell’imprinting, ma in realtà ne sono in qualche misura contagiati. C’è un sacco di gente che, pur non condividendo quegli atteggiamenti nella loro radicalità, tuttavia si crede smart. Un po’ sgamati e un po’ “fichi” perché non si conformano alle regole strette del “principio di precauzione”, si fanno un vanto di sfidare il destino a viso scoperto, dimenticare la mascherina a casa e ignorare il distanziamento. Sintomo di indipendenza, spirito critico, rifiuto di disciplinamento.

Credo che sia l’opposto. Che siano, a loro insaputa – un po’ come il mai dimenticato Scajola – attraversati da quella stessa incultura trasversale tra echi nicciani e seduzioni thatcheriane, che spira forte attraverso l’Atlantico. E che al contrario la civiltà vera, non quella del formalistico “politicamente corretto” ma dell’autentico rispetto di sé e dell’altro stia in chi accetta di coprirsi il viso per poter guardare il proprio vicino con occhio limpido, facendosi carico della propria e altrui salute. In chi accetta di stare a un metro dal proprio simile per essergli in realtà vicino nella cura e nell’attenzione. Insomma, in chi si conforma (alle normative della precauzione) per essere in realtà difforme dal pessimo spirito del tempo che ci ha portati al punto in cui siamo.

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