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L’ora della pace tra Israele e Palestina (di Laura Boldrini)

Immagine di copertina
Credit: Apaimages/SIPA / AGF

Oltre 15 mesi di guerra hanno ucciso 47mila persone a Gaza e distrutto il 60% degli edifici, tra cui case, scuole e ospedali. Ma la tregua non basta. Rischiamo di non porre mai fine alla violenza senza il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina. Né per i palestinesi né per gli israeliani

Mentre scrivo queste righe la tregua è, finalmente, iniziata, le bombe hanno smesso di massacrare i palestinesi di Gaza e i primi ostaggi israeliani sono stati liberati. Un cessate il fuoco necessario ma fragile, minacciato dall’estrema destra messianica israeliana guidata dall’ormai ex ministro Itamar Ben Gvir e dal suo sodale, ancora nel governo Netanyahu, Bezalel Smotrich.
Nelle ore in cui si discutevano gli ultimi dettagli di un accordo che rischiava di saltare da un momento all’altro, mi trovavo proprio in quelle terre, come presidente del Comitato permanente sui diritti umani della Camera, insieme a una delegazione composta dal vice-presidente, Emanuele Loperfido, e dal consigliere della commissione Esteri di Montecitorio, Stefano Tabacchi.
E lì, a Ramallah, Betlemme, Gerusalemme, nel kibbutz di Nir Oz, a Tel Aviv, abbiamo percepito sollievo e un cauto ottimismo sia da parte della società civile israeliana, sia di quella palestinese. Sollievo e ottimismo che, però, non possono cancellare 15 mesi di sterminio dei palestinesi, di recrudescenza della violenza dei coloni in Cisgiordania né l’orrore del 7 ottobre. Tutto questo, è bene averlo chiaro in mente, lascia dietro di sé cicatrici molto profonde e una scia di odio che sarà complicatissimo superare. Per farlo, è necessario un assiduo e massiccio impegno della comunità internazionale, soprattutto a livello politico. Durante la nostra missione, abbiamo incontrato vittime direttamente colpite dalla violazione dei diritti umani,  associazioni e Ong che si adoperano per assisterle. E abbiamo dialogato anche con le istituzioni sia palestinesi che israeliane.

Cicatrici profonde
C’è molto timore, nei Territori occupati, che la fine della guerra a Gaza non coincida con la fine della violenza inaudita dei coloni e dell’esercito israeliani in Cisgiordania. Gli espropri e le demolizioni di case dei palestinesi a Gerusalemme est, nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan, ufficialmente motivati con presunte violazioni del piano urbanistico, fanno a pugni con le case occupate dai coloni, a pochi metri di distanza, per le quali, evidentemente, non valgono le stesse regole. Alibi per costringere i palestinesi ad andarsene e far spazio agli insediamenti dei coloni, illegali secondo il diritto internazionale.
Quindici mesi di bombardamenti hanno ucciso almeno 47mila persone a Gaza, distrutto oltre il 60 per cento degli edifici, tra cui case, scuole e ospedali, ma hanno avuto anche effetti gravissimi sull’economia fuori dalla Striscia, in Cisgiordania. Com’è successo con il crollo del turismo a Betlemme, meta cruciale di pellegrinaggio per i cristiani di tutto il mondo ma anche per milioni di turisti, che ora appare deserta. Tassi altissimi di disoccupazione tra chi lavorava nel settore e un clima di tensione crescente hanno portato molti ad andare via, incluse alcune comunità cristiane.
Cicatrici, dicevamo, che sarà difficile curare. Nel kibbutz di Nir Oz, uno di quelli colpiti il 7 ottobre, gran parte delle case sono state distrutte, date alle fiamme dai terroristi di Hamas. La  loro violenza cieca ha colpito chiunque: bambini, donne, anziani. Anche chi andava a prendere i feriti al valico di Gaza per portarli negli ospedali israeliani, come il fondatore del kibbutz stesso, Oded Lifshitz, 84 anni. Adesso il kibbutz non è più abitato, ma Ola Metzger, una delle donne con cui abbiamo parlato, è sicura: Nir Oz sarà ricostruito e chi vorrà potrà ritornare. Nella consapevolezza che non si può più vivere in un conflitto permanente, Ola chiede con determinazione l’aiuto della comunità internazionale perché la soluzione riguarda tutti, va oltre Israele.

Nessuna soluzione alternativa
Equilibri molto delicati e traumi profondi, in entrambe le società civili, rendono difficile immaginare la convivenza pacifica e sicura tra due Stati. Per questo il ruolo della comunità internazionale, che per troppi anni si è disinteressata di quello che accadeva in Palestina, è fondamentale. La ministra di Stato degli Affari Esteri palestinese Varsen Aghabekian Shahin sottolinea che l’Europa ha un grande potere, ma non lo esercita. «Le vite dei palestinesi contano come quelle degli israeliani, degli ucraini e di tutti gli altri», ha rimarcato. «Riconoscere lo Stato di Palestina non sarebbe solo un gesto simbolico, ma un’applicazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Perché l’Italia non lo fa?».
E perché sia necessario che tutti riconoscano lo Stato di Palestina è chiaro non solo dal fatto che il Parlamento israeliano ha votato una risoluzione contraria alla nascita dello Stato di Palestina, ma anche dalle risposte che ci ha dato Yuli Edelstein, presidente della commissione Esteri e Difesa alla Knesset. Gli ho chiesto per tre volte quale fosse la loro proposta alternativa, ma le sue risposte sono state vaghissime, dicendo che forse sono gli stessi palestinesi che non vogliono questo Stato. Ma se questo può valere per Hamas certo non vale per l’Autorità nazionale palestinese (Anp) che da sempre vuole lo Stato di Palestina e riconosce lo Stato di Israele. Anche la messa al bando dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, da parte di Israele, è motivo di grande preoccupazione. È sull’Unrwa che si regge tutto il welfare della Striscia e in Cisgiordania: impedirle di lavorare significa punire la popolazione palestinese più vulnerabile. Ma anche in questo caso nessuna soluzione alternativa ci è stata illustrata da Edelstein.

Responsabilità internazionali
Mentre assistiamo alle immagini dei quasi due milioni di sfollati della Striscia che tornano nelle loro città, quasi del tutto distrutte da 15 mesi di bombardamenti indiscriminati contro case, ospedali, scuole, perfino sui campi profughi, è sempre più chiaro che è, appunto, la comunità internazionale che dovrà avere un ruolo determinante al livello politico così come nella ricostruzione. Il piano dell’ultradestra messianica israeliana è chiaro: colonizzare del tutto Gaza e annettere la Cisgiordania. Un progetto scellerato che va fermato senza se e senza ma. Come va fermata la violenza dei coloni nei Territori occupati. Non ci può essere uno Stato senza continuità territoriale e non ci saranno mai pace né sicurezza senza il riconoscimento dello Stato di Palestina. Né per i palestinesi né per gli israeliani.
È su questo che anche l’Italia deve avere una posizione netta. Il principio di autodeterminazione è sancito dal diritto internazionale e la liceità dello Stato di Palestina è riconosciuta dall’Onu non solo con la risoluzione del 1947 ma anche con gli accordi di Oslo del 1993 che pure Israele ha siglato.
Ma il diritto internazionale sembra non valere più, per il nostro governo, se il ministro degli Esteri Tajani si permette di dichiarare che se venisse in Italia Benjamin Netanyahu, sui cui pende un mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale, non verrebbe arrestato. Una scelta di immensa gravità: vuol dire garantire l’impunità a una persona accusata di avere commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Vuol dire che il diritto internazionale vale a corrente alternata: per Putin sì, per Netanyahu no. È un precedente pericolosissimo che apre la strada alla legge del più forte e alla barbarie.

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