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Black Lives Matter e lo sviluppo della Political Corporate Social Responsibility (di L. Zacchetti)

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La crisi sociale innescata dall'omicidio di George Floyd ha accelerato un processo già in corso: il massiccio supporto di aziende e manager alla battaglia per l'equità si lega alla profonda crisi del capitalismo, non solo negli Stati Uniti. E la "CSR" si trasforma in "PCSR"

Black Lives Matter e lo sviluppo della Political Corporate Social Responsibility 

“Sono indignato, triste, frustrato e arrabbiato”. A commentare la morte di George Floyd non è un “pericoloso attivista” come quelli che paiono turbare il sonno di Donald Trump, ma James Quincy, CEO della Coca-Cola. Il suo messaggio, inizialmente rivolto all’interno dell’azienda, ha colpito molti dipendenti del colosso del beverage, i quali hanno chiesto a Quincy di renderlo pubblico. Il manager londinese ha accettato di farlo, senza tagli: il suo punto di vista ora è liberamente fruibile e decisamente forte: “Aziende come la nostra devono farsi avanti come alleate del movimento Black Lives Matter. Noi stiamo dalla parte di chi cerca giustizia ed equità”. Il fatto che la comunicazione aziendale si intrecci con le tematiche politiche non è una novità, come abbiamo avuto modo di evidenziare anche recentemente. Il movimento Black Lives Matter ha dato una forte accelerazione a questo fenomeno, vista la sua drammatica rilevanza sociale.

“Stare in silenzio significa essere complici”, scrive Netflix sul proprio profilo Twitter. E lo stesso social network ha etichettato come “misleading” alcuni tweet nei quali Trump commentava le manifestazioni di protesta. Anche Snapchat ha escluso l’account del Presidente dalla sua sezione “discover”, mentre Facebook inizialmente non ha reagito nei confronti di alcuni post considerati infondati e inneggianti alla violenza. In seguito alle proteste di molti dipendenti, Mark Zuckerberg ha dovuto fare marcia indietro e annunciare una revisione delle policy del social. Il suo tentativo di star fuori dalla polemica è fallito miseramente. D’altronde, “è impossibile non comunicare”, come spiega il primo assioma della comunicazione della Scuola di Palo Alto fondata dal sociologo Paul Watzlawick negli anni ’60. Oggi questo concetto si declina nel coraggio di assumere posizioni anche rischiose. Lo esplicita anche Richard Branson, fondatore dell’impero-Virgin, che scrive “In situazioni di ingiustizia, essere neutrali significa stare dalla parte dell’oppressore”. Si tratta di una citazione impegnativa: quella dell’arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, eroe della battaglia contro l’apartheid in Sudafrica.

In questi giorni di forti tensioni sociali, le prese di posizione da parte di brand multinazionali e di singoli manager sono state innumerevoli. Particolarmente significativa, come spesso accade, è stata quella di Nike, che ha modificato il suo storico pay-off “Just do it” in “For once, don’t do it”. Un’iniziativa talmente forte e riuscita da essere stata retwittata dagli storici competitor di Adidas.

“Per una volta, non farlo. Non fingere che in America non ci sia un problema. Non girare la schiena di fronte al razzismo. Non accettare il fatto che vite innocenti ci vengano strappate. Non trovare ulteriori scuse. Non pensare che la cosa non ti riguardi. Non stare seduto in silenzio. Non pensare di non poter essere parte del cambiamento”: un minuto di filmato che suona esattamente come un manifesto politico e che di fatto chiude un’era, ovvero quella in cui prendere posizioni scomode era fortemente sconsigliato, per non inimicarsi chi la pensa diversamente.

 

Un efficace sintesi di quell’epoca è legato proprio a Nike e al suo testimonial più famoso di tutti i tempi, Michael Jordan. Nel 1990 al fenomeno del basket venne proposto di sostenere Harvey Grant, candidato Democratico afro-americano che nel North Carolina sfidava Jesse Helms, noto per le sue posizioni decisamente poco favorevoli nei confronti delle minoranze. Jordan declinò l’invito affermando che “anche i Repubblicani comprano le sneakers”. Chi ha visto il fortunatissimo “The Last Dance” sa bene che l’ex campione ha sminuito l’episodio bollandolo come uno scherzo, ma al di là delle scelte personali di MJ la linea della cautela ha spesso indirizzato le scelte dei personaggi pubblici e, ovviamente, delle aziende.

Il cambiamento è frutto di un’evoluzione del marketing. Il rapporto di fiducia tra azienda e consumatore non si basa più “solo” sulla qualità del prodotto, ma sulla capacità del brand di veicolare valori condivisi, motivanti e soprattutto coerenti: se i comportamenti concreti dell’azienda contraddicono il messaggio inviato al pubblico (è il caso del “pinkwashing” e del “greenwashing”), il danno di immagine può essere devastante. Ovviamente, scegliere le battaglie alle quali aderire non è un’operazione semplice, soprattutto per le multinazionali che si trovano ad operare in contesti diversi. Per questo motivo, è sempre più diffusa la figura del consulente di marketing “politico”, come già abbiamo avuto modo di raccontare. Ma c’è di più. Sulla scia del movimento Black Lives Matter, stiamo assistendo al passaggio dalla “Corporate Social Responsability” (CSR) alla “Political Corporate Social Responsibility” (PCSR).

Perchè la “responsabilità sociale d’azienda” si trasforma in “responsabilità socio-politica d’azienda”? Cosa c’è in gioco?

Oltre al destino dei singoli brand, a essere in discussione è il modello stesso del capitalismo, che rappresenta la cornice nella quale tutte le aziende mettono in campo i rispettivi strumenti, dalla produzione al marketing. Il modo di pensare tradizionale è sintetizzato dal pensiero di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976: nella sua visione, l’unico obbligo di un’azienda privata consiste nel massimizzare i profitti per i propri azionisti. Se per farlo non viola la legge, tutti i suoi obblighi sono esauriti con successo.

Tuttavia, già a cavallo degli anni ’50 e ’60 erano emerse con chiarezza le contraddizioni del capitalismo, nel quale ai giganteschi profitti delle principali corporation corrisponde l’inaccettabile sperequazione con la maggior parte della popolazione mondiale. Il concetto stesso di Corporate Social Responsability nasce per mitigare tali sperequazioni, mettendo in campo azioni (locali o globali) di compensazione e ridistribuzione sociale. Le numerose crisi degli ultimi decenni (economiche, sociali e ovviamente anche sanitarie, viste le conseguenze del Covid-19), hanno evidenziato l’insufficienza di queste azioni. Analisi lucide e impietose come quelle dell’economista Thomas Piketty hanno spinto a parlare apertamente della necessità “un nuovo socialismo” in tutto il mondo e persino negli Stati Uniti, dove fino a pochi anni fa il termine era un tabù. Non è casuale che, nel suo recentissimo libro “Società: per azioni”, ne parli anche il Sindaco di Milano Beppe Sala, il cui sguardo è sempre stato molto attento nei confronti di quanto avviene all’estero.

Altrettanto significativo è stato il position paper pubblicato nell’agosto del 2019 da US Business Roundtable, un gruppo di 181 aziende di primaria importanza, tra cui Apple, Fox, Siemens, Procter & Gamble, Mastercard e PWC. Il documento, dal significativo titolo “Rivisitazione degli scopi di un’azienda”, parla apertamente della crisi del sistema: “Il modello economico americano (…) ha elevato gli standard di vita per generazioni, promuovendo la concorrenza, la scelta del consumatore e l’innovazione. Le aziende americane sono state un motore fondamentale del suo successo. Però sappiamo che troppi americani stanno soffrendo. Troppo spesso il duro lavoro non viene compensato e non si fa abbastanza per permettere ai lavoratori di adattarsi ai rapidi cambiamenti dell’economia. Se le aziende non riconoscono il fatto che il successo del nostro sistema dipende da una crescita di lungo termine ed inclusiva, saranno in molti a sollevare legittime domande sul ruolo dei principali datori di lavoro nella nostra società. E’ sulla base di queste preoccupazioni che Business Roundtable ha deciso di modernizzare i suoi principi sul ruolo dell’azienda”.

È in questo contesto che bisogna leggere non solo il diffuso supporto alle istanze di Black Lives Matter. Il razzismo è una piaga che affligge gli Stati Uniti (e non solo) da secoli, ma mai come ora è stata diffusa la sensazione che la cornice del sistema fosse precaria e in procinto di schiodarsi dal muro. Ed è ovvio che l’eventuale crollo del capitalismo spazzerebbe via la maggior parte di chi vi ha prosperato. Non solo tra le aziende. Da qui emerge la stringente necessità di promuovere una maggiore equità in tutti i campi (razziale, di genere e ovviamente anche economico) non “solo” per continuare a fare business, bensì per garantire un futuro a un sistema che altrimenti potrebbe non averlo. Non si tratta certo di imbiancare i sepolcri, perché una mera operazione di facciata non avrebbe l’impatto necessario. Bisogna avere l’ambizione di rendere il mondo più giusto, prima che l’ingiustizia ci travolga tutti. E le aziende possono e devono essere protagoniste di questo passaggio epocale.

L’evoluzione della CSR classica nella Political Corporate Social Responsibility è un aspetto centrale di questo fenomeno, che oltretutto comporterà lo sviluppo di nuove skill professionali, capaci di muoversi tra mondi tradizionalmente paralleli come la politica e il marketing.

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