Berlinguer e il seme dell’austerità rivoluzionaria che il Pd dovrebbe coltivare
Il 15 gennaio 1977 Enrico Berlinguer tenne al teatro Eliseo di Roma il discorso conclusivo del Convegno sugli intellettuali dedicandolo al concetto di austerità. Dopo i «trent’anni gloriosi» delle politiche keynesiane che avevano incrementato il Pil ridistribuendolo più equamente grazie alle lotte operaie, il neo-capitalismo stava conquistando la scena e andava sostituendo la lotta di classe dei ricchi contro i poveri alla lotta di classe dei poveri contro i ricchi. Berlinguer colse tutto il significato controrivoluzionario di quel neo-capitalismo che si fondava su centralità del mercato, concorrenza, precarizzazione e consumismo. Comprese con straordinaria lucidità il valore rivoluzionario dell’austerità e la propose con un’argomentazione così acuta e appassionata che ancora oggi potrebbe, da sola, costituire il paradigma di un partito di sinistra vincente. Quarant’anni dopo, Serge Latouche, leader mondiale del movimento culturale per una decrescita serena, dedicò al discorso di Berlinguer un capitolo della sua antologia sui precursori della fortunata idea, ponendo il segretario del Pci accanto a Gandhi. È un vero, incomprensibile autolesionismo quello per cui il Pd, erede obtorto collo del Pci, non abbia fatto di quel discorso il suo cavallo di battaglia, che oggi gli consentirebbe di uscire dallo stallo ideologico ed elettorale in cui versa.
Già allora Berlinguer riteneva urgente «abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quell’artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, parassitismi, privilegi, dissipazione delle risorse, dissesto finanziario». Una sana austerità era imposta non solo dal confronto con il Terzo Mondo ma anche dalla certezza che essa rappresentasse una leva essenziale e sicura con cui spingere la battaglia «per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base, assumendo un significato rinnovatore e diventando un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni». La pratica dell’austerità sarebbe diventato un ampio moto democratico al servizio di un’opera di trasformazione sociale. Rileggere oggi quel discorso fornisce la misura del degrado politico della sinistra, ormai contagiata dal verbo neo-liberista. Berlinguer aveva il coraggio di parlare un linguaggio rivoluzionario per proporre cose rivoluzionarie. Si rilegga questo passaggio per averne conferma: «Viviamo in uno di quei momenti nei quali […] o si avvia “una trasformazione rivoluzionaria della società” o si può andare incontro “alla rovina comune delle classi in lotta”; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». A quella rovina che Berlinguer paventava e contro la quale ci offriva lo strumento salvifico dell’austerità, ora siamo mille volte più vicini che nel 1977.
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