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L’occasione mancata dagli Azzurri che scelgono di non inginocchiarsi contro il razzismo

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Una grande occasione persa. Se è vero (come è vero) che il calcio è il terreno su cui ogni piccolo simbolo diventa subito grande racconto, con la decisione di non inginocchiarsi contro il razzismo, gli Azzurri hanno perso due opportunità in un colpo solo. Scegliere tutti insieme che nessuno si sarebbe più inginocchiato, infatti, è l’unica cosa che è peggiore di inginocchiarsi tutti senza credere a nulla.

Non inginocchiarsi per partito preso, ma nascondersi dietro una decisione di squadra, poi, è un modo per coprire le responsabilità di ognuno con lo scudo protettivo della scelta collettiva. E soprattutto, posto che nella vita ognuno ha sempre il diritto di fare ciò che vuole, sarebbe bello discutere su questo tema, ponendosi una semplice domanda: perché mai qualcuno percepisce come una scelta non condivisibile un bellissimo gesto di solidarietà contro la violenza?

Tutto quello che si fa, quando si sceglie consapevolmente, dovrebbe essere spiegato. Ed ecco perché, così come giorni scorsi avevo detto – e scritto – che trovavo ridicola l’idea di imporre un impegno civile conformista e a comando, uguale e indifferenziato per tutti, adesso resto stupito di fronte a questo ultimo colpo di scena: il gesto di ignavia comune, indifferenziato e deresponsabilizzato.

Avevo sostenuto – perché ne sono convinto – che ognuno decide per sé ciò che intimamente ritiene giusto o sbagliato. Proprio per questo, peggio di questo unanimismo conformista, c’è solo il disimpegno civile d’ufficio. In fondo sono due facce della stessa medaglia.

Anche perché, proprio nel corso di questo Europeo, abbiamo scoperto, in una velocissima e progressiva contaminazione, quanto i simboli siano importanti, quanto lo sport e la coscienza della pubblica opinione diventino immediatamente una cosa sola.

Lo ha capito bene l’Ungheria di Orban – meno male che non ce l’ha fatta a passare il turno – che, mentre varava leggi omofobe e discriminatorie, sperava di rifarsi l’immagine nel mondo del calcio con il più classico tic della propaganda di regime.

Lo aveva capito bene il satrapo Erdogan, che imponeva il saluto militare alle sue marionette calcistiche nei giorni in cui l’esercito turco perseguitava i curdi.

Lo ha capito la Uefa, che si è spaventata sul tema dell’omofobia e che ha negato l’illuminazione di uno stadio con i colori della bandiera arcobaleno in nome del principio non scritto per cui è meglio combattere solo le battaglie facili. Così hanno pensato gli eurocrati del pallone, e certo – conoscendoli – non mi stupisce affatto.

Nel momento in cui la lotta si fa dura, e quando le autorità imbambolate si spaventano, i nostri Azzurri dovrebbero imparare dall’immenso capitano della Germania, Manuel Neuer. Il portierone tedesco che, senza pifferi e senza fanfare, ha scelto di indossare una discreta e bellissima fascia da capitano, con la bandiera arcobaleno, per spiegare che lui sta dalla parte di chi difende i diritti, e non da quella di chi li cancella.

E, ovviamente, questo aveva ancora più peso, perché Neuer giocava contro quella stessa Ungheria di Orban, proprio nella partita che ha contribuito ad eliminarla.

Quanto conta il gesto di un singolo, dunque, lo abbiamo imparato in queste ore. Quanto sarebbe stato bello che gli Azzurri si fossero regalati la possibilità di scegliere. Il mondo è bello perché ognuno decide quali simboli preferisce, ma, nel momento in cui esplode la guerra, io non ho dubbi che sia necessario adottare i simboli della libertà, farli sventolare come bandiere. E tra i simboli della libertà – in questo momento storico – i più importanti sono quelli per cui si paga un prezzo.

Oggi mettersi in ginocchio contro la violenza, e mettersi la fascia contro l’omofobia, sono due modi (belli) per distinguersi dai conformisti, dagli invertebrati e dagli ignavi. Non è poco.

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