Il caso Assange dimostra che quando c’è da perseguitare giornalisti non c’è differenza tra Stati Uniti e Arabia Saudita (di G. Cavalli)
I cosiddetti Stati autoritari che vengono bastonati (giustamente) dalle organizzazioni umanitarie potrebbero prendere appunti: è possibile perseguitare un giornalista senza sgualcirsi il polsino, con la faccia pulita degli esportatori di democrazia e confidando in una stampa internazionale morbida e distratta.
Julian Assange ha pubblicato file diplomatici che hanno permesso al mondo di conoscere gli intrighi degli Stati Uniti, i crimini commessi nelle cosiddette missioni di pace e un’enorme mole di violazioni della legge da parte dello stesso governo che promette di difenderla. Assange non è diverso dai tanti giornalisti eroi che vengono giustamente celebrati per avere fatto conoscere ciò che il potere vorrebbe tenere nascosto, Assange non è diverso dai testimoni di giustizia che venendo a conoscenza di crimini decidono di renderli pubblici per assicurare la giustizia stessa, Assange non è nemmeno molto diverso dai giornalisti che qui in Italia hanno fatto la storia dell’antimafia quando l’antimafia era una cosa seria, che non si limitava alle beghe di quattro picciotti ma mirava a scardinare i gangli più alti del potere e le sue collusioni mafiose.
Eppure Assange non scalda i cuori e non accelera le penne dei giornalisti che sul suo caso sono stati colti da un’innaturale timidezza. C’è da capirli: immaginate che effetto farebbe sapere che gli Stati Uniti non sono diversi dall’Arabia Saudita assassina di Kashoggi. Immaginate l’effetto che potrebbe fare sapere che i buoni non sono davvero così buoni e assomigliano moltissimo ai cattivi da cui promettono di liberarci.
Ieri l’Alta corte di Londra ha ribaltato la sentenza emessa in primo grado lo scorso gennaio, dando il via libera all’estradizione negli Stati Uniti per rispondere del reato di “verità” e avere raccontato l’approccio assassino degli americani nelle guerre in Afghanistan e Iraq.
Il giudice che ha preso questa decisione è Ian Burnett, un carissimo amico personale di Alan Duncan. Per chi fosse poco informato forse sarebbe importante sapere che Duncan fu il ministro degli Esteri che organizzò lo sgombero di Assange dall’ambasciata ecuadoriana e che nel marzo 2018 in Parlamento definì Assange un “miserabile verme”. Fu il ministro che ammise di voler togliere “il sorrisetto dalla sua faccia” e che regalò “un bellissimo piatto di porcellana dal negozio di souvenir di Buckingham Palace” al presidente dell’Ecuador Moreno per ringraziarlo di avere consegnato Assange. Il giudice amico dell’ex ministro oggi ha detto al mondo che Assange non rischia nulla negli Usa (sono in molti a temere il suicidio del fondatore di Wikileaks) perché “gli Usa hanno prestato tutte le rassicurazioni”.
E allora vediamoli questi Usa rassicuranti con Assange: nel 2017, quando Julian Assange iniziò il suo quinto anno rintanato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, la Cia cospirò per rapire il fondatore di WikiLeaks, stimolando un acceso dibattito tra i funzionari dell’amministrazione Trump sulla legalità e la praticità di tale operazione. Alcuni alti funzionari della Cia e dell’amministrazione Trump hanno persino discusso dell’uccisione di Assange, arrivando al punto di richiedere “bozze” o “opzioni” su come assassinarlo. Le discussioni sul rapimento o l’uccisione di Assange si sono verificate “ai più alti livelli” dell’amministrazione Trump, ha affermato un ex alto funzionario del controspionaggio: “sembrava che non ci fossero limiti”. Lo scoop che svelò il piano criminale (di Yahoo News) è basato su conversazioni con più di 30 fonti governative.
In sostanza c’è un uomo che, in qualità di editore, ha pubblicato notizie vere che secondo la giustizia britannica può tranquillamente andare a farsi processare in uno Paese che ha programmato la sua eliminazione fisica. Tutto bene? Chissà che invidia i dittatori nel vedere che tutto questo viene chiamate “democrazia occidentale”.