Un anno di Draghistan: il miracolo che non c’è
L’Economist celebra l’Italia del banchiere-premier ma un giovane su tre è senza lavoro e metà degli anziani vive in povertà
La Legge di Bilancio è arrivata all’aula del Senato all’ultimo minuto utile. Un giorno o poco più per approvarla, evidentemente senza discussione. Poi stesso iter per la Camera. Bene che vada ognuno dei 945 “rappresentanti del popolo” chiamati a votarla ha avuto appena il tempo di dare un’occhiata ai 219 articoli che la compongono distribuiti in 122 pagine zeppe di rinvii e rimandi a normative parallele (a cui si aggiungono le 50 pagine del maxi-emendamento governativo).
Come dire che l’hanno votata a occhi chiusi, dopo aver ascoltato le “dichiarazioni di voto” dei rispettivi capigruppo o chi per essi. E che il Parlamento è di fatto esautorato dalla elaborazione e dalla discussione di quello che viene di solito considerato il più importante atto normativo di ogni anno, a favore dei contatti informali tra apparati di partito della sterminata quanto eterogenea maggioranza, funzionariato ministeriale e sherpa di varia natura (politica o lobbistica).
Così vanno le cose al tempo del “Governo dei migliori”. Il quale peraltro se ne va in giro tronfio per la proclamazione da parte della rivista The Economist dell’Italia “Paese dell’anno” grazie alla “sua politica”, alle sue performance in campo economico, e soprattutto grazie a quelle del suo Capo, come non hanno mancato di enfatizzare (quasi) tutti i giornali e gli organi d’informazione che fin dalla nascita fanno da violini di spalla al “banchiere-premier”. Ma che, tuttavia, salvo poche meritorie eccezioni, si sono ben guardati dall’aggiungere che tanta “eccellenza” in quel “premio” non c’era se ce lo siamo aggiudicato strappandolo a un concorrente come il Malawi (classificatosi secondo davanti a isole Samoa, Moldavia e Zambia…). E soprattutto che la prestigiosa rivista che l’ha assegnato appartiene in ampia misura (il 43 per cento delle azioni) alla famiglia Agnelli.
In questo contesto, lo sciopero generale del 16 dicembre indetto da Cgil e Uil, è giunto opportunamente a sussurrare, sia pur timidamente, ma per chi vuole intendere il messaggio chiaramente, che “il re è nudo”. Che non va affatto “tutto bene, madama la marchesa”. E che il mondo del lavoro – e più in generale di chi sta al fondo della piramide sociale – vive un profondo, doloroso malessere che nessuna narrazione di potere può occultare.
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