Parlare di diplomazia non equivale a una sconfitta: perché annientare Putin non salverà Kiev (di G. Gambino)
La guerra in Ucraina è entrata nel nono mese dall’inizio dei combattimenti. Kiev resiste grazie al sostegno dell’Occidente. Mosca ha ripreso a bombardare indiscriminatamente i civili, colpendo anche le infrastrutture energetiche con l’intento di lasciare al buio e al freddo gli ucraini in vista dell’inverno alle porte. La pace sembra lontana.
Negli scorsi mesi, Putin ha minacciato più volte di ricorrere alle armi nucleari. Mentre Biden ha annunciato che esiste la minaccia di un Armageddon atomico. La tensione è alle stelle. A 60 anni dalla crisi missilistica di Cuba, infatti, si è tornati a parlare del rischio, serio e concreto, di una escalation nucleare su scala globale. Con la differenza però che, nel 1962, i due protagonisti di allora (Kennedy per gli Stati Uniti e Krusciov per l’Unione Sovietica) almeno erano disposti a parlarsi. Oggi no.
Nessuno, per la verità, forse nemmeno Putin, vuole davvero una guerra nucleare. Ma nessuno è disposto a fare per primo un passo indietro, con il timore di apparire debole e vulnerabile.
A fronte di uno scenario così pericoloso e instabile, molti si sono chiesti come si possa uscire dal pantano di questa guerra.
Dovremmo cedere e abbandonare gli ucraini al proprio destino nel nome della deterrenza nucleare, compromettendo però così per sempre il diritto internazionale? Quaranta milioni di ucraini valgono bene 7 miliardi di cittadini nel mondo? Le risposte a queste due domande sono, rispettivamente, no e sì.
Ma, mentre la battaglia per la difesa della sovranità ucraina non è in discussione, dovremmo chiederci in che modo il perseguimento di questo legittimo e doveroso obiettivo non metta a repentaglio l’esistenza stessa dell’intera umanità.
Per gli hard-liners della pace costi quel che costi (cioè senza condizione alcuna) parlare di diplomazia equivale a una sconfitta, perché «l’unica soluzione accettabile» è la sconfitta stessa di Putin.
Il che è un discorso di principio nobile, persino romantico, ma non particolarmente d’aiuto alla causa ucraina, e men che mai nella ricerca pratica e materiale di una via d’uscita.
Del resto pensateci: a chi giova l’isolamento di Putin in un simile contesto di escalation nucleare? L’Occidente può senz’altro affermare di aver ottenuto una Russia ai margini della comunità internazionale, con un presidente dai più considerato folle (oppure malato), ma serve a qualcosa esasperare la solitudine di un leader e rischiare così che commetta gesti irrazionali?
Dovremmo poi poter rispondere senza compromessi a quest’altra domanda: le sanzioni imposte alla Russia dall’Occidente hanno fatto più male all’Europa o a Mosca?
Non c’è dubbio sul fatto che le sanzioni abbiano avuto un impatto su diversi settori dell’economia russa, piegandone la produzione e diminuendo le importazioni. Ma come ha anche illustrato l’Economist, gli indicatori economici della Russia hanno tenuto meglio di quanto si credesse, nonostante le sanzioni. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, aveva inizialmente previsto una contrazione dell’economia russa dell’8,5 per cento quest’anno, ma quel dato è stato ora rivisto e aggiornato, con una contrazione prevista al 3,4 per cento. Persino l’inflazione in Russia è oggi in calo.
Fareed Zakaria sul Washington Post ha spiegato che le ragioni per una simile tenuta sono di varia natura. In primo luogo il fatto che l’economia russa non è così “globale“ come lo è quella della Cina, per esempio, che avrebbe molto più da perdere se l’Occidente decidesse di imporre sanzioni contro Pechino. Ma la motivazione più rilevante sta nel fatto che l’economia di Mosca dipende in larghissima parte dalle esportazioni di petrolio, gas e altre risorse cruciali. Risorse che l’Occidente si è visto bene dal sanzionare, tenuto conto che a sua volta dipende in modo cruciale dal gas russo, con cui noi europei scaldiamo e illuminiamo le nostre città e le nostre case.
Per cui se è senz’altro vero che le sanzioni alla Russia sono risultate in parte efficaci, è anche vero che l’Europa (ma non l’America) ha perso la sfida economica con Mosca nei decenni scorsi, quando ha deciso periodicamente di procrastinare l’urgenza di una propria indipendenza energetica e rimanere così legata a doppio filo al solo gas russo. Un intoppo ben più grave di qualsivoglia sanzione imposta al Cremlino.
Quindi? Cosa occorre fare? In primo luogo ricordare a noi stessi che ricercare, anche con determinazione, lo sforzo diplomatico e la via del dialogo non significa in alcun modo rinunciare a battersi per la difesa della sovranità ucraina e per l’indipendenza di Kiev.
In tal senso i leader europei, possibilmente senza l’intralcio e il peso degli Usa, dovrebbero trattare sulla base di questi cinque principi: 1. Non cedere sui nuovi territori ucraini annessi dalla Russia. 2. Porre gradualmente fine all’invio di armi in Ucraina. 3. Imporre un cessate il fuoco. 4. Riconoscere, e far accettare a Washington, che le regole del gioco dell’ordine mondiale, oggi multipolare, sono cambiate. Il mondo come lo conoscevamo prima del 24 febbraio non esiste più, e forse mai più tornerà. Non ci sarà un ritorno ai rapporti diplomatici e commerciali come ai livelli pre-invasione. 5. Ridimensionare la funzione e il ruolo della Nato e ricercare una de-escalation militare globale.
Non sono principi impossibili da accettare. Come ha ricordato di recente sul Financial Times l’ex vice-segretario generale della Nato Rose Gottemoeller, due anni fa Putin sembrava già essere intenzionato a intraprendere questa strada, con la rimozione di missili nucleari di media gittata dall’Europa a condizioni mutualmente verificabili, sostenendo la necessità di una moratoria per quei missili nel continente europeo. Prima dell’invasione russa in Ucraina, durante un incontro tra Putin e Xi Jinping a Pechino, i due parlarono della necessità di estendere quella moratoria anche al continente asiatico. Per questo forse, più di ogni altra cosa, oggi è necessario ripartire da quel colloquio. Per capire cosa avessero in mente Xi e Putin. E per ricercare quanto prima la fine della tensione.