Ambiente, migranti, razzismo: noi, popolo di Genova, avevamo capito tutto con 20 anni di anticipo
Avevamo ragione su tutto a Genova, avevamo visto lungo su tutto quello che sarebbe successo nei decenni a venire. A partire da quello che accadde pochi mesi dopo con la caduta delle Torri Gemelle, crollate come un castello di carta, il simbolo del Word Trade Center e la fine dell’imperialismo.
Avevamo detto “Not in my name” alla guerra del Golfo ed eravamo rimasti segnati dalle guerre fratricide della Bosnia e dall’inferno di Srebrenica. “In marcia nel mondo gettando grano fecondo”: avevamo previsto esattamente quello che sarebbe accaduto sul disastro ambientale, c’eravamo 20 anni prima della generazione Fridays For Future, avevamo urlato il grosso problema della cannibalizzazione del pianeta a Porto Alegre dove ripetevamo come un mantra: un altro mondo è possibile.
Avevamo previsto tutto sui flussi migratori, e lo avevamo urlato sulle note di Clandestino di Manu Chao. Il mondo è di tutti, il Mediterraneo unisce le terre e le culture, eravamo contro ogni razzismo a Genova, vent’anni prima di Black Lives Matter avevamo contestato il brutale assassinio di Rodney King, per mano della polizia americana ed eravamo andati a Seattle. Eravamo scesi in piazza a Genova pieni di entusiasmo, come avevamo fatto già tante volte in quegli anni, era già successo a Napoli in Piazza del Plebiscito, c’erano state delle avvisaglie. Forse il diritto a manifestare non era poi così scontato in Italia.
Era stato un decennio creativo, esplosivo, di speranza: la Milano dei grandi centri di aggregazione sociale e il Leoncavallo, la Roma antifascista del Forte Prenestino, quella meticcia del Villaggio globale, la Bologna creativa, dell’Isola nel cantiere, del Livello 57, del primo Tpo, l’orgoglio meridionale delle Fucine Meridionali di Bari, la Padova del Pedro. Eravamo una rete unica solidale e stretta intorno a principi solidi e valori condivisi che qualsiasi partito in questo momento può solo sognare. Eravamo oltre la partecipazione dal basso, eravamo la passione degli ideali e forse abbiamo rappresentato l’ultima grande azione di questo Paese. Con una convocazione unica all’unisono e mesi di preparazione sulla rete Indymedia, lo spazio indipendente di contro-informazione che accomunava tutti sotto la matrice di NoGlobal.
C’era un sogno, una speranza, c’era forza e passione. Avevamo 20 anni allora, eravamo la generazione nata tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, la terza mobilitazione di massa in Italia, dopo quella del ’68 e del ’77. A Genova in quel caldo giovedì di luglio eravamo in tantissimi, una marea umana. Poteva succedere qualsiasi cosa in quei giorni, eravamo abituati alla delegittimazione, a essere chiamati “scoppiati”, “poco di buono”, ad essere guardati come quelli strani e inaffidabili. Quello che non poteva succedere era il fatto che un ministro desse l’ordine a sparare oltre la zona rossa e che si sia entrati in una scuola mentre le persone dormivano procedendo a un massacro punitivo verso gente innocente. Quello che non poteva succedere è successo a Piazza Alimonda ed era un proiettile tra gli occhi di un ragazzo di 23 anni.
Con Carlo in quell’istante è morto un movimento intero, un movimento che aveva ragione su tutto e che per tali ragioni doveva morire, stretto tra i cordoni della zona rossa e la disinformazione dei media. Quello che è accaduto dopo parla di altro, dalla scomparsa della classe media alla morte del capitale nel 2008, all’avvento dei populismi e dei sovranismi, dai fanatici religiosi dall’Isis a quelli di Capitol Hill.
Siamo morti a Genova il 20 luglio del 2001. Lì avevamo portato la nostra agenda di priorità al G8. Tutti i punti di quell’agenda sono arrivati al tavolo dei potenti oggi e sono diventati priorità, ma è passato troppo tempo ormai, troppi morti, troppi disastri ambientali e umani. Come diceva il grande maestro: “bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà”.