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Adil e Luana, vittime dei “nuovi” caporali del Covid

Immagine di copertina
Luana D'Orazio e Adil Belakhdim

Sono arrivati i caporali del Covid. E con loro un altro morto a Novara, vittima di una azione omicida durante uno sciopero. Arrivano i nuovi capitali, e, con loro, arrivano nuove forme di violenza intimidatoria, come per i sindacalisti aggrediti a Lodi, la settimana scorsa. E, sempre insieme a loro, sono arrivate anche le rivelazioni terribili di ieri sulla fine di Luana D’Orazio, dopo le prime perizie dei pm: quella morte non è stata un incidente frutto del caso, o dell’errore, ma è – scopriamo – la storia un corpo che finisce stritolato nell’’orditrice, per dolo.

Bisognava tagliare i tempi, e così si sono manomessi i sistemi di sicurezza (ben due, secondo i pm) finendo per tagliare una vita. Dolo e rimozione delle protezioni: proprio come è successo per la funivia di Mottarone: non un cavo che si rompe per una fatalità, ma i forchettoni del sistema di sicurezza usati per evitare la pausa forzata delle manutenzioni.

Sono morti apparentemente diversissime tra di loro, ma, a ben vedere, tutte cucite da un unico filo: la fretta, lo spregio delle regole, l’arroganza di chi usa la pandemia come un’alibi per non rispettare più nessun vincolo.

È un pezzo d’Italia che ha preso la cassa integrazione pur continuando a far lavorare i propri dipendenti in nero e che ora vuole tornare a far cassa, e subito, per rifarsi delle perdite.

Spesso è quel frammento di paese che, lavorando completamente in nero, non ha avuto diritto a nessun ristoro. Gente disperata, incattivita. Che pensa di rifarsi sulla pelle dei propri dipendenti. L’altre faccia del paese bello e generoso, in cui i datori di lavoro si sono svenati per anticipare le casse integrazioni ai loro dipendenti.

L’ultimo morto sembra uscito da un quadro di Pellizza da Volpedo: ed è proprio il sindacalista di 37 anni travolto dal camion questa mattina. È accaduto a Biandrate, nel Novarese, nei pressi del deposito territoriale della Lidl. Nel tempo digitale si può morire schiacciati sotto le ruote di un tir come in uno sciopero dei primi del Novecento.

Adil Belakhdim, la vittima, era un sindacalista di origini marocchine coordinatore dei SiCobas Lavoratori Autorganizzati. Era sposato, aveva due figli di quattro e sei anni che ora restano senza padre. E nell’incidente sono rimasti feriti altri due lavoratori: avrebbe potuto essere una strage. Perché si può colpire così, nel mucchio.

I caporali del Covid hanno tante facce e nessuna: l’autista del camion, che secondo i testimoni avrebbe volontariamente investito l’uomo, subito dopo ha cercato di fuggire. Ma, per fortuna, i carabinieri lo hanno bloccato poco dopo all’autogrill dell’A4 tra i caselli di Novara Est e Novara Ovest: è un camionista di origini campane, ancora non conosciamo la sua identità. Ma su quel cadavere è come se ci fosse una firma.

Insofferenza, rabbia, fastidio per chiunque si metta di mezzo. Per chiunque cerchi di mettere vincoli (di qualsiasi tipo) alla dis-regolazione scientifica di questi tempi pandemici. Contribuisce, a tutto questo, un comune retroterra culturale: la leggenda metropolitana sui “mantenuti del reddito” che rifiutano i lavori perché sono “così ricchi” che se lo possono permettere. E contribuiscono, dunque, anche le teorizzazioni sulla necessità di non farsi troppe domande.

Il maestro involontario che ha prestato le sue parole alla costituzione di un singolare teorema emergenziale è stato un albergatore di Marina di Pietrasanta che ha fatto sentire la sua voce (in un post diventato celebre) a tutti coloro che dopo il Covid non vogliono nessuna regola.

Su questo imprenditore, che si chiama Alessio Maggi, scrisse con grande tempismo, su questo stesso giornale, Giulio Cavalli. E la frase che resta, consegnata a Facebook recitava così: “Se a qualcuno, questa estate, nel caso mai riaprissimo, verrà in mente di venirla a menare con domande alla carlona tipo ‘quanto si lavora? Quanto mi dai? Qual è il giorno libero?’. Vi dico – scriveva Maggi, quasi un mese fa – con il massimo garbo possibile: non vi presentate. Siamo in emergenza e come tale deve essere gestita e elaborata. Se pensate di avere o pretendere come se non fosse successo nulla, datevi all’ippica”.

Lo hanno letto in tanti. E molti – anche senza aver il coraggio di ripetere – hanno condiviso questo appello regressivo. I caporali del Covid non sono un movimento organizzato, non ancora. Ma sono uno stato d’animo diffuso, una filosofia del lavoro selvaggio che miete vittime e talvolta uccide.

Esistevano già prima della pandemia, ovviamente. Ma questi spiriti animali del capitalismo selvaggio hanno preso forza nell’anno del Covid, si sono costruiti una legittimità sull’emergenza. Sono sciacalli che non vogliono pagare il conto. Non sono vittime. Recitano il ruolo delle vittime. Fanno levittime. Che ovviamente è un concetto molto diverso.

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