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A Sanremo le parole contano

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I grandi eventi sportivi e musicali non possono essere estranei alla politica, soprattutto quando si vivono momenti particolarmente sentiti dall’opinione pubblica. Lo dimostrano tanti episodi della storia, uno tra tutti il saluto del Black Power dei duecentometristi Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico del 1968.

Per le grandi cause politiche e sociali, i grandi eventi sono sempre stati un grande palcoscenico, ma al tempo stesso chi porta le cause all’attenzione di milioni di persone ha una grande responsabilità, soprattutto trattandosi di uno spazio in cui non vi è sempre il tempo per argomentazioni complesse.

Nel momento in cui Ghali ha detto “stop al genocidio” dal palco di Sanremo, non si è limitato a portare avanti una battaglia coerente con la sua storia, come ha rivendicato a Domenica In, ma ha usato una parola, “genocidio” che rappresenta uno dei più infami delitti contro l’umanità esistenti, e diffondere un’accusa del genere contro un qualsiasi Paese, in un contesto del genere, senza la possibilità di argomentare può avere un effetto sbagliato.

Tanti appelli, inevitabilmente, sono stati portati avanti dal palco dell’Ariston. Per la pace, il cessate il fuoco, la vita, con riferimento soprattutto a una guerra in cui decine di migliaia di persone sono rimaste uccise, molti dei quali bambini. Un dramma. E tanti altri appelli, anche più espliciti, avrebbero potuto essere fatti, in base alle convinzioni di ciascun artista. Ma usare il nome di un crimine così infame e che oltretutto sappiamo cosa rappresenti per la storia di Israele può non avere l’effetto di fare passi verso la pace.

Israele, come noto, è stata formalmente accusata all’Aja di genocidio dal Sudafrica, e in quelle sedi vi sarà un procedimento a riguardo. Ma migliaia di morti non possono essere semplicemente una “questione burocratica”, e non si sa se questo sia meglio o peggio che tramutare tutto in un conteggio macabro tra i drammi della storia, quando ogni singola vittima rappresenta una vita, una storia, che potenzialmente nessuno racconterà mai. Ma va anche detto che i rischi del potenziale abuso di un termine sono un rischio non solo per le reazioni che può suscitare oggi, ma anche verso i popoli barbaramente massacrati e la loro storia. Si può criticare Israele anche in modo aspro, si possono fare appelli espliciti a riguardo, ma le parole sono importanti, soprattutto se si sta parlando a milioni di persone senza che vi sia il tempo per argomentazioni complesse.

Sanremo è stato giustamente il posto degli appelli per la pace. Giustamente deve essere un luogo in cui tutte le vite spezzate da una guerra, tra le quali neanche immaginiamo quanti amanti della musica siano state. Ma proprio per questo, sarebbe stato toccante e doveroso in qualche forma durante le cinque serate un pensiero anche agli israeliani e a tutte le persone uccise e rapite il 7 ottobre, tra cui coloro che semplicemente volevano assistere a un festival musicale.

Ricordare tutti ed evitare di fingere che non stia succedendo nulla all’altro capo del Mediterraneo sarebbe stato un messaggio edificante su una questione che si rivela sempre più aspramente divisiva, avrebbe potuto aiutare anche a evitare polemiche. E gli artisti fanno bene a usare il palco per veicolare messaggi sociali e politici a loro cari per mille ragioni. Ma le parole pesano, soprattutto quando si parla a milioni di persone.

 

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